Per anni il suo nome è diventato un grido di battaglia. Perché grazie alle sue reti le periferie del calcio hanno sognato davvero di potersi fare centro. Anche solo per un pomeriggio. Anche solo per uno spezzone di partita. Fra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila Dario Hübner è stato il re dei bomber di provincia, il totem intorno al quale si sono ritrovate a ballare intere comunità di tifosi. Sgraziato ma letale, ispido ma capace di far rotolare la palla come sul velluto, l’attaccante partito da Muggia, centro di dodicimila anime a due passi dal confine con la ex Jugoslavia, è diventato una figura iconica, nume tutelare dei nostalgici di un calcio ormai estinto. Merito anche della sua capacità di restare sempre coerente con se stesso. Ma anche di una parabola da romanzo. Le partitelle con gli amici sul piazzale di Borgo Zindis, la scuola come obbligo da portare a termine per poter continuare a inseguire il pallone che continuava a rotolare, il lavoro prima come fabbro e dopo da installatore di infissi, con le cornici delle finestre che gli tagliavano le mani fino a farle sanguinare. È qui che Dario Hübner ha imparato a dominare la fatica che poi gli permetteva di filare via veloce sul campo da gioco. Il suo fisico muscoloso che portava a spasso quel rovo di capelli neri gli è valso il soprannome di “Bisonte”, che l’uscita di “Balla coi lupi” ha trasformato poi in “Tatanka“. Un appellativo affettuoso che Hübner si è portato sulle spalle in tutte le sue vite calcistiche, dall’Interregionale con il Pievigina fino alla Serie A conquistata a 34 anni con il Brescia e poi dominata con la maglia numero 27 del Piacenza, quando il “Bisonte” si è laureato capocannoniere del campionato più difficile del mondo con la bellezza di 24 centri. Una vita straordinaria vissuta all’insegna dell’ordinarietà. Il grappino dopo una buona cena con gli amici, i due tiri di sigaretta all’intervallo delle partite. Gesti comuni che lo hanno fatto diventare patrimonio condiviso, l’umano che con il suo movimento a mezzaluna era capace di rubare la scena ai divi. Un antieroe per eccellenza che oggi compie 56 anni. E che ha ancora molto da dire.
Cos’era il gol per Dario Hübner?
Un risarcimento per i miei compagni.
Un attaccante che non vive il gol come un fatto personale. Non è strano?
Beh erano i miei compagni che mi mettevano in condizione di tirare in porta. Loro dovevano correre per me, difendere per me. Per questo ogni rete che segnavo era un qualcosa che sentivo di dover dedicare prima a loro che a me stesso. Io in fase difensiva correvo per modo di dire, ero lassù che aspettavo la palla e dovevo solo essere bravo a fare gol. Loro invece si dannavano l’anima.
Lei è considerato il re dei bomber di periferia. È un’etichetta che le pesa?
Assolutamente no. Io sono un bomber di provincia perché ho giocato soprattutto in provincia. Non sono sicuro che in una big sarei riuscito a segnare lo stesso numero di gol. Quando torno a Cesena, Brescia, Piacenza, Perugia, mi accorgo che la gente mi ricorda con tanto affetto, che mi è rimasta profondamente affezionata.
Un rapporto così profondo è legato alla sua figura di perfetto antieroe?
Ero una persona semplice, uno che dava tutto in campo. Con i tifosi ho sempre avuto un rapporto tranquillo. Io davo tutto per la maglia e, automaticamente, quando uno si impegna al massimo non può che essere apprezzato.
A proposito, i bomber di provincia sono ormai specie protetta. Come mai?
Perché non abbiamo né tempo né voglia di aspettarli. Oggi appena un giocatore fa bene viene ceduto per monetizzare. Guarda cosa è successo con Scamacca, che è stato ceduto al West Ham invece di avere continuità con il Sassuolo. Ora un giovane non può più crescere con calma, basta una mezza partita fatta bene che uno diventa un fenomeno. Assurdo.
Una volta per tutte: beveva davvero un grappino nell’intervallo?
Guarda questa è una str***ata che hanno scritto in tanti e mi sono trovato a dover querelare diverse testate. Eravamo in Serie A, figuriamoci se ci si poteva bere una grappa negli spogliatoi. Io al massimo, quando il mister aveva finito di darci le indicazioni tattiche nell’intervallo, andavo in bagno con la mia sigarettina e mi facevo due tiri. La grappa me la potevo bere in settimana, magari dopo una bella cena con gli amici, non certo fra la fine del primo e l’inizio del secondo tempo. Io ero un po’ pazzo, non certo un co***one. Ma ho capito che nel mondo oggi più la spari grande e più la gente ci crede.
Oggi compie 56 anni, cosa Le manca di più del calcio?
Per me giocare era un divertimento, una cosa bella, una soddisfazione. Era tutto. Lo facevo perché mi piaceva, non per i soldi o per altro. Fare sport fa bene e devo dire che mi manca. Gli anni passano, così adesso è diventato una fatica. Mi sono fermato. Non faccio più neanche il portiere.
Prima di diventare calciatore ha fatto il fabbro, montava gli infissi in alluminio. C’è mai stato un momento in cui ha pensato di lasciare tutto?
Per me il percorso è stato esattamente l’inverso. Sono partito dalla Prima Categoria e poi sono andato in Interregionale. La prima volta che mi sono sentito davvero un calciatore è stato ai tempi del Cesena. Prima mi reputavo semplicemente un giovane che faceva un lavoro che gli piaceva, ero molto spensierato. All’epoca giocare in Serie C voleva dire semplicemente fare un lavoro più bello degli altri, non ci campavi. Io giocavo a calcio e mi divertivo. Fino a 25 anni non pensavo proprio a diventare un calciatore di Serie A o di Serie B.
Le è mancato non aver giocato per vincere?
Fino a un certo punto. Ho sempre giocato con squadre provinciali, il mio obiettivo primario era la salvezza, per tre quarti del campionato giocavo con squadre che erano più forti della mia. Ho perso più di quanto ho vinto. Io però davo il 100%, se gli altri erano più forti di me e della mia squadra tanto di cappello, pazienza, non succedeva niente. La mia non è una versione romantica, ma realistica. Ora il calcio è cambiato. Quando giocavo io si andava a San Siro, a Torino e a Roma consapevoli di giocare contro squadre estremamente più forti. Ora vedo le provinciali che vanno in trasferta al Meazza e giocano la palla. Quando ci andavo io se tornavi a casa dopo aver preso tre gol ti era andata bene, il pareggio era un miracolo. Andavamo lì per difenderci e per portare via un punto.
Le piace il calcio di oggi?
Molte volte ho la sensazione che le squadre non siano unite. Vedo più undici ditte che giocano per se stesse, mentre prima erano undici operai che lavorano per una ditta. Si vede chiaramente che molti calciatori in campo non si aiutano. Magari uno non dà una mano al compagno per non rischiare che il proprio uomo possa segnare e fargli fare una brutta figura. Ognuno gioca con la paura di peggiorare le proprie statistiche, per questo è meglio completare i passaggi più semplici che rischiare giocate più difficili.
Quindi? Meglio come si giocava trent’anni fa?
Ti dico la verità: quando vedo le partite e ci sono 15-20 passaggi del portiere mi sembra una grande str***ata. Il numero uno deve parare, rimango basito quando sento che il portiere “deve essere bravo con i piedi”. Il calcio contemporaneo è questo: i centrali devono sapere lanciare e giocare la palla, ma spesso non sanno marcare.
In molti ripetono che il livello tecnico dei giocatori è calato molto negli ultimi trent’anni. È davvero così?
Non credo. Ora gli attaccanti sono più tutelati, un difensore che commette due mezzi falli rischia l’espulsione, sembra quasi di giocare a pallacanestro. Il calcio è cambiato molto, non ci sono più i difensori centrali di una volta, gente come Aldair, Nesta, Thuram e Cannavaro. Gli attaccanti hanno vita più semplice. Io però non voglio dire che un tempo c’era più tecnica, altrimenti noi ex giocatori possiamo sembrare invidiosi del futuro.
Un tecnico da cui avrebbe voluto essere allenato?
Ce ne sono tanti. Credo che Sarri sia una che fa giocare bene la squadra valorizzando la fase offensiva. Non mi piace come sta giocando la sua Inter, ma ai tempi della Lazio Simone Inzaghi era uno che sfruttava tantissimo Immobile, trasformandolo in un punto di riferimento. Ecco, a me piacciono gli allenatori che sanno far giocare la squadra.
Lei cresciuto giocando sul piazzale di Borgo Zindis. Quanto è importante il calcio di strada nella costruzione del talento?
Era fondamentale sia per affinare la tecnica sia per aumentare la “cattiveria”. Quando avevo otto anni giocavo contro quelli di quattordici. Dovevi essere bravo a difendere il pallone, ad aprire i gomiti, altrimenti i più grandi ti massacrano. Un’ora di piazzale valeva quanto cinque o sei allenamenti con i concetti e i fratini.
Lei non ha mai giocato in Nazionale, le è rimasto l’amaro in bocca per non aver mai vestito la maglia azzurra?
Se guardo agli anni Novanta e Duemila c’erano tanti attaccanti più bravi di me, come per esempio Montella. Oggi invece ci sono talmente pochi centravanti che si fa fatica a trovarli. Retegui in Nazionale non è uno scandalo, ma la conseguenza di tutto quello che è successo negli ultimi dieci anni. Quando giocavo io le squadre Primavera erano composte solo da italiani, il Brescia vinse il Viareggio con 25 bresciani. Ora invece sono tutti stranieri. Per un centravanti o per un portiere è molto più difficile emergere.
Lei era abituato a giocare sui campi in terra battuta. Il primo contatto l’erba fu un trauma.
A Trieste i campi erano marroni. Gli spazi erano pochi e le squadre ci giocavano in continuazione. Arrivare sui campi d’erba è stata una grande soddisfazione, non avevo più la “marmellata” sulle cosce quando mi buttavo in scivolata. Nell’erba ti potevi divertire, anche se i primi stop li ho sbagliati tutti.
Il gol a cui è già legato?
A tanti, se te ne raccontassi uno solo rischierei di dirti una bugia. Forse potrei dire il gol realizzato con il Brescia a Cosenza che ci ha portato in Serie A, oppure la mia doppietta al Verona con il Piacenza con cui sono diventato capocannoniere. Ma anche il mio esordio in Serie A, con il gol realizzato a San Siro con la maglia del Brescia non è stato male.
Lei ha assistito all’alba del talento di Andrea Pirlo
Aveva 16 anni ma si vedeva che aveva qualcosa in più degli altri. Riusciva sempre a lanciare il pallone un metro avanti a te per darti la possibilità di giocare in profondità. Devo dire che era un ragazzo stupendo. Io le partitelle le volevo sempre vincere e i giovani li ho sempre massacrati. Andrea l’ho sgridato, ma per il suo bene, e lui lo ha capito. Aveva un carattere di ferro, si vedeva che voleva arrivare.
Ma ha visto anche il tramonto di Roberto Baggio
Ho avuto la fortuna di giocare con lui, ma la sfortuna di farlo quando avevamo 35 anni. Lui aveva ancora un piede da extraterrestre, non era più quello che faceva serpentine fra due o tre avversari. Per noi era un idolo, sembrava un sogno averlo accanto. Lui invece si è messo a disposizione degli altri fin dal primo giorno. Lo trattavamo come uno qualunque e lui si era adattato, faceva gli scherzi. Insomma, si è messo subito in condizione di volergli bene. Io lo dico sempre: se fai baruffa con Roberto vuol dire che non ti funziona il cervello.
Eppure non ha nessun rimpianto per la sua carriera?
No, davvero, sono felicissimo.
Neanche il mancato trasferimento alla “sua” Inter?
Forse sì, ma poi magari non sarei stato sempre titolare e mi sarei perso. Forse avrei fatto una carriera diversa, quindi va bene così.