Oggi è la giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro. Nel corso del 2022, secondo i dati Inail, le denunce di infortunio professionale presentate all’Istituto sono state 652.002, con un incremento del 29,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, 1.006 delle quali con esito mortale (-9,9%), mentre le patologie di origine professionale denunciate sono state 55.732, pari a +9,7% rispetto al 2021. Va anche considerato che il calo delle morti è strettamente rapportabile al minor peso del Covid 19, cui si è però contrapposto invece un contestuale incremento dei decessi in itinere e un aumento delle malattie professionali.
Gravità e specificità di questi dati non colgono, tuttavia, le condizioni di un settore che oggi – e storicamente – continua a risultare particolarmente a rischio, sostanzialmente invisibile nel discorso pubblico ed evidentemente marginalizzato in termini di tutela sindacale ed elaborazione normativa: il settore del lavoro domestico e familiare retribuito. Recentemente è stato pubblicato il primo rapporto dell’associazione “Slaves no more”, che si occupa di indagare, in prospettiva di genere, lo sfruttamento lavorativo e sessuale delle donne, tenendo conto della letteratura e delle ricerche esistenti e attuando indagini di campo. All’interno di questo rapporto un’ampia sezione è stata dedicata al lavoro domestico retribuito e, grazie agli articoli presentati, emerge una situazione ancora assai delicata, anche e soprattutto sotto il punto di vista della sicurezza e della salute sul lavoro.
In generale, il lavoro domestico retribuito è sempre stato approcciato a rilento dalla sfera normativa. La prima (e finora unica) legge organica si è avuta nel 1958 e, il primo Contratto collettivo nazionale (Ccnl) nel 1974, perché solo nel 1969 fu dichiarata incostituzionale l’esclusione della categoria dalla contrattazione sulla base dell’articolo 2068 del Codice civile. Dopo di che, però, i cambiamenti sono stai ben pochi, nonostante l’Italia sia stata tra le prime a ratificare la Convenzione 189 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), che prevede che ogni Stato membro adotti misure adeguate ad “assicurare che i lavoratori domestici godano di condizioni non meno favorevoli di quelle applicabili all’insieme dei lavoratori in materia di sicurezza sociale”.
Per quanto concerne la sicurezza sul lavoro, le cose sono addirittura progressivamente peggiorate. Inizialmente, nel 1955, le lavoratrici e i lavoratori domestici furono inclusi nelle “Norme per la prevenzione degli infortuni” e fu fatto obbligo ai datori di lavoro di assicurare loro “un ambiente che non sia nocivo”. Tuttavia, dal 1994, il disegno di legge che ha dato attuazione alla direttiva quadro europea relativa alla sicurezza sul lavoro ha esplicitamente escluso “gli addetti ai servizi domestici e familiari” – questo passaggio è stato ribadito anche successivamente, con il disegno di legge in materia nel 2008. Inoltre, in caso di malattia, lavoratrici e lavoratori del settore hanno diritto alla conservazione del posto per un periodo di durata inferiore a quella prevista per le altre categorie e non hanno accesso all’indennità erogata dall’Inps. Tale indennità, in base alla contrattazione nazionale, è a carico dei datori di lavoro, per un numero di giorni variabile in base all’anzianità di servizio ma comunque molto breve. Per sopperire parzialmente a queste mancanze, il principale Ccnl ha previsto la costituzione della Cassa Colf “per fornire prestazioni e servizi a favore dei lavoratori e datori di lavoro iscritti, comprensive di trattamenti assistenziali sanitari e assicurativi, integrativi e aggiuntivi delle prestazioni pubbliche per migliorare la tutela socio sanitaria” – ma si tratta comunque di uno strumento a sé, legato a un’iscrizione e assolutamente caratterizzato da un trattamento differenziale rispetto a quello delle altre categorie lavorative.
Proprio il Ccnl sembra l’unico strumento a consentire alcuni spazi di tutela per lavoratori e lavoratrici domestiche ma, anche in tal caso, non è possibile dimenticare una serie di problemi relativi alla contrattazione, in particolare per quanto riguarda la rappresentatività (la sindacalizzazione del settore è molto bassa) e l’esistenza di ben 21 Ccnl con caratteristiche difformi gli uni dagli altri. Questi deficit normativi, si sono intrecciati con le problematiche relative alle leggi sull’immigrazione. A cavallo tra anni Sessanta e Settanta, infatti, il settore del lavoro domestico retribuito ha coinvolto sempre più massicciamente lavoratrici provenienti prima dal Sud del mondo poi anche dall’est Europa (e la prima legge organica sull’immigrazione è stata elaborata solo nel 1986). Le difficoltà di essere in regola con il titolo di soggiorno dovuta alla durezza della legislazione relativa ai flussi migratori ha contribuito a far sì che il settore sia quello in cui, in Italia, il lavoro nero è più diffuso: le percentuali di irregolarità – secondo l’Istat – raggiungono il 57%, contro una media nazionale del 12,6% e, in rapporto all’inviolabilità dello spazio domestico, non vengono attuati ispezioni e controlli – fattore desiderabile per chi non in regola ma, al contempo, implicito limite al controllo degli abusi. Dunque, anche il contesto normativo ha un ruolo fondamentale nell’esporre le lavoratrici domestiche a forme diversificate di sfruttamento.
Inoltre, nel nostro Paese, in una fase in cui l’invecchiamento della popolazione ha reso urgente il bisogno di assistenza alle persone anziane, si è scelto di ricorrere principalmente al “welfare fai da te”, non incrementando i servizi pubblici – e parallelamente lasciando tutto il lavoro familiare sulle spalle delle donne, senza implicare alcuna redistribuzione tra i generi. Da qui il sempre più ampio ricorso al lavoro domestico salariato e alle varie strategie (anche legislative) che lo mantengono all’interno di una condizione di acuta precarietà, poiché per reggersi, questo sistema necessita di lavoro flessibile e a basso costo e, dunque, anche dell’apertura delle case all’immigrazione, nonostante la retorica ostile e in virtù di una maggiore ricattabilità di chi vive le difficoltà dell’esperienza migratoria.
Ad ogni modo, la comprensione di questo fenomeno richiede anche una prospettiva storica e un approccio critico alla costruzione di due sfere separate, una pubblica, maschile e dedita al “vero lavoro”, e una privata, femminile e familiare. Questi processi hanno causato una radicale devalorizzazione del lavoro di cura che si svolge nelle case, a partire da quello gratuito e influenzando la dequalificazione e la scarsa considerazione di quello retribuito. Il perseverare di queste lenti pregiudiziali ha coinvolto di epoca in epoca nuovi soggetti all’interno di un circolo vizioso di sfruttamento che, per essere oggi compreso, necessita l’adozione di una lente intersezionale, che tematizzi le questioni della classe, del genere e della “razza”, dentro e fuori dallo spazio domestico.