Poco prima del tramonto, su un set arioso ma spoglio che viene man mano abbandonato dalla troupe di un film, Nanni Moretti rimane da solo a giocare con un pallone. Quando sopraggiunge la stanchezza, si siede su una panchina per rifiatare: alle sue spalle campeggia il tendone di un vecchio circo deserto.
La realtà dell’industria cinematografica intorno a lui, così come il linguaggio narrativo del cinema stesso, gli sono cambiati intorno talmente in fretta da confondere i piani di interpretazione tra divertimento e solitudine.
Da quella che è una delle scene più delicate e forse personali de Il sol dell’avvenire ci sarebbero tutti gli elementi per aspettarsi un finale cupo, tendente all’autocommiserazione o a quell’autoindulgenza piccata e sferzante a cui il regista ha abituato, negli anni, affezionati e detrattori, e invece no.
Nell’ultimo film di Moretti il disorientamento del protagonista Giovanni – regista egoico e vagamente tirannico alle prese con un film in costume sulle contraddizioni del vecchio Pci, che non decolla per motivi economici, personali ma soprattutto di ispirazione artistica – sceglie di fare la rivoluzione permanente a se stesso, di sfidare l’idiosincrasia e accogliere gli irrisolti.
Lo si nota in tante piccole svolte in controtendenza con l’impianto dialogico classico delle sue opere: storicamente nei film del “vecchio” Nanni gli interlocutori giocano spesso di sponda, tacciono dinanzi alla voce del demiurgo, lo subiscono. Ne Il sol dell’avvenire è Moretti a subire gli interlocutori, praticamente per tutto il film: dagli attori che lo contestano sul set (Barbora Bobulova nei panni dell’appassionata Vera), al surreale eppure verosimile board di Netflix che esige dal suo film turning point e scene “what-the-fuck?”, alla figlia (Valentina Romani) che gli annuncia il matrimonio con l’ultrasettantenne ambasciatore polacco (Jerzy Stuhr), alla moglie Paola (Margherita Buy) che gli prospetta una separazione dopo quarant’anni di simbiosi proprio nel momento più delicato di lavorazione della sua ultima pellicola.
Il culmine di questo processo giunge durante la scena di un pranzo in cui non siede nemmeno a capotavola, e tutti i commensali, a prescindere dal grado di intimità, gli impongono la propria visione del suo film all’unisono, parlandogli sopra. E Giovanni che fa? Decide di fare comunque a modo suo, ma nel farlo in quel momento tace, e mette in discussione i vertici del proprio partito interiore. Guarda alla tensione ludica delle sue aspirazioni cinematografiche e nel farlo ritrova verve e divertimento. E anche coerenza, dato che il gioco come metafora a più livelli della rappresentazione scenica ha sempre contraddistinto i suoi migliori film, dalla pallanuoto di Palombella rossa a quella che è una delle scene probabilmente più belle del cinema italiano, la partita di pallavolo tra cardinali di Habemus papam in cui il regista/psichiatra e il segretario di Stato del Vaticano confrontano le proprie visioni opposte e inconciliabili dei massimi sistemi, mentre alle loro spalle va in scena l’unica interpretazione, sensata e pacifica insieme, che siamo riusciti a dare all’esistenza come specie: il gioco, appunto.
Il sol dell’avvenire ha in sé tre film: quello che il regista/protagonista vive, quello che sta girando e quello che vorrebbe fare, ma inizialmente si limita solo a sognare. E alla fine è quest’ultimo ad avere la meglio sugli altri due. Avrebbe potuto essere l’ennesimo film a più livelli sulla crisi della sinistra, della coppia e dell’industria dello spettacolo, è invece un lavoro che sì, parte dai noti mondi e dai noti linguaggi morettiani, per lasciarsi però alle spalle il senso di abbandono e sconfitta imposto da quelle dimensioni ormai stanche, superate da una realtà oppositiva, idiosincratica, frammentata.
Il risultato è una genuina dichiarazione d’amore al cinema stesso, con rimandi – diegetici e non – a Jacques Demy, a Kieslowski, a Fellini: ai percorsi che, partendo dal sé interno per esplorare il sé all’esterno, hanno fatto grande la settima arte.