Il taglio del cuneo fiscale che il governo approverà nel cdm del Primo Maggio (dopo che la maggioranza ha rimediato all’autogol senza precedenti di giovedì sullo scostamento di bilancio) sarà del tutto insufficiente a compensare la perdita di potere d’acquisto causata dall’aumento dei prezzi. La conferma arriva dall’Istat, che nella stima flash sui contratti collettivi e retribuzioni contrattuali tra gennaio e marzo spiega come “nella media del primo trimestre, nonostante il progressivo rallentamento della crescita dei prezzi, la differenza tra la dinamica dell’inflazione (IPCA) e quella delle retribuzioni contrattuali rimane superiore ai sette punti percentuali“. La retribuzione oraria media nel periodo gennaio-marzo 2023 è cresciuta del 2,2% rispetto allo stesso periodo del 2022, spiega l’istituto di statistica. In questo quadro, come ha calcolato Bankitalia, l’ulteriore riduzione del cuneo per un valore complessivo di 3,4 miliardi lascerà nelle tasche dei lavoratori con redditi bassi solo 16 euro in più al mese, in media.
Un intervento che cambierà pochissimo, dunque, per gli oltre 10 milioni di dipendenti che secondo le ultime dichiarazioni dei redditi guadagnano meno di 20mila euro lordi l’anno. Per Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, è “una vergogna” che “le bollette di luce e gas siano raddoppiate, l’inflazione a marzo sia al 7,6%, pari a un rincaro di 1755 euro per una famiglia media, 1320 euro per un single con meno di 35 anni, mentre gli stipendi salgano solo del 2,2%%, 3 volte e mezzo meno. Fino a che gli stipendi non sono adeguati all’aumento del costo della vita, preservando il potere d’acquisto delle famiglie, i consumi resteranno al palo e di conseguenza il Pil crescerà, come in questo primo trimestre 2023, dello 0,5%”.
La “modesta dinamica retributiva osservata nel comparto industriale“, nota Istat, “si associa alla limitata entità degli incrementi fissati dai rinnovi siglati tra il 2020 e 2021 (quando le aspettative inflazionistiche erano ancora molto contenute)”. Nel settore dei servizi invece “la più contenuta crescita salariale è anche legata al fatto che più della metà dei dipendenti è in attesa del rinnovo del CCNL”, che è il momento nel quale si negoziano aumenti salariali seppure piccoli.
I contratti che a fine marzo 2023 sono in attesa di rinnovo sono 32 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti, il 55,6% del totale. Il tempo medio di attesa di rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto, tra marzo 2022 e marzo 2023, è diminuito da 30,8 a 23,4 mesi, mentre per il totale dei dipendenti passa da 17 a 13 mesi.
Alla fine di marzo, i 41 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 44,4% dei dipendenti – circa 5,5 milioni – e corrispondono al 43,8% del monte retributivo complessivo. Nel corso del primo trimestre 2023 sono stati recepiti 6 contratti: autorimesse e autonoleggio, servizi socio assistenziali, gomma e materie plastiche, vetro, Fiat, lavanderie industriali.