Per l’editoria internazionale Joseph Ratzinger ha sempre rappresentato l’autore di bestseller immortali. Lo è stato, per esempio, da sacerdote e teologo, nel 1968, con Introduzione al cristianesimo. Un testo la cui lettura suscitò la grande ammirazione di Karol Wojtyla che, divenuto Papa dieci anni dopo, nel 1978, lo chiamò a Roma alla fine del 1981 come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Lo è stato da cardinale, nel 1985, con Rapporto sulla fede, il libro intervista scritto con il giornalista Vittorio Messori. Lo è stato da Papa, soprattutto con la trilogia su Gesù di Nazaret, scritta e pubblicata negli otto anni del suo pontificato, e con Luce del mondo, nel 2010, il libro intervista realizzato con il suo biografo Peter Seewald, con cui, da cardinale, aveva già dato alle stampe Il sale della terra nel 1997 e Dio e il mondo nel 2001. Lo è stato da Papa emerito, in particolare con Ultime conversazioni, nel 2016, sempre scritto a quattro mani con Seewald. E lo è perfino dopo la morte, con il volume postumo Che cos’è il cristianesimo.

È impossibile, però, comprendere davvero il pensiero teologico di Ratzinger senza aver letto Ciò di cui il mondo ha bisogno (San Paolo) dell’arcivescovo Rino Fisichella, pro prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione, responsabile della Sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo, considerato uno dei teologi italiani più autorevoli e affermati a livello internazionale. Il presule, inoltre, è stato per quasi trent’anni uno dei più vicini e fedeli collaboratori di Ratzinger. Nel volume, il cui titolo riprende un’espressione molto frequente del Papa tedesco, monsignor Fisichella passa in rassegna, in modo completo e chiaro, come è nel suo stile, i punti fermi del magistero di Benedetto XVI. Ne emerge un ritratto non solo autorevole, ma autentico, ben contestualizzato nel periodo storico in cui Ratzinger è stato chiamato a guidare la Chiesa di Roma dopo i 27 anni di san Giovanni Paolo II.

Quella di monsignor Fisichella, è bene chiarirlo, non è per nulla un’agiografia, una rilettura edulcorata di un pontificato breve, ma senz’altro molto travagliato, il cui epilogo, come è noto, sono state le sconvolgenti, soprattutto per la Curia romana, dimissioni dell’11 febbraio 2013: “La rinuncia – scrive il presule – non la capii al momento e mi rimane tutt’oggi ancora oscura. Certo, teoricamente si sa che il Papa può rinunciare, ma sperimentare effettivamente la rinuncia mi creava una condizione di confusione”. E aggiunge: “Mai avrei pensato che il Papa potesse dimettersi; eppure, ero spettatore di un evento di portata storica. Non si sa cosa accadrà con i successori. Certamente con quel gesto si dava avvio a qualcosa che la Chiesa nel futuro avrebbe dovuto considerare molto più attentamente per le conseguenze che ne derivavano”.

L’arcivescovo, inoltre, chiarisce che la stima che gli ha sempre manifestato il cardinale Ratzinger “non mi ha mai tolto il dubbio se la sua scelta fosse realmente quella giusta. Come si sa, chi sceglie il Papa è lo Spirito Santo e lui non può sbagliare. La scelta, comunque, avviene attraverso gli uomini e, forse, quando questi scelgono con la fretta possono compiere passi falsi a cui lo Spirito Santo deve poi porre rimedio”. Fisichella offre un primo bilancio del pontificato ratzingeriano e così contribuisce a consegnare alla storia l’eredità di Benedetto XVI. Quell’eredità per la Chiesa e il mondo che non può di certo essere offuscata o ancora peggio svanire a causa delle polemiche suscitate dai collaboratori, infedeli e incapaci, di quel pontificato.

Non a caso monsignor Fisichella sottolinea acutamente la distinzione tra “Papa reale” e “Papa percepito” applicata a Benedetto XVI. Le caricature di cui Ratzinger è stato vittima in tutta la sua vita e perfino dopo la sua morte sono, infatti, tantissime. Eppure, non hanno mai turbato il mite e umile lavoratore nella vigna del Signore che si è congedato dal mondo in silenzio nella residenza scelta per i quasi dieci anni vissuti da emerito, un tempo superiore a quello del suo pontificato.

Il presule, infine, spiega il motivo del suo totale dissenso sulla scelta del nome assunto da Benedetto XVI dopo le dimissioni: “Con il titolo di ‘Papa emerito’ si viene a creare una condizione che a mio avviso stride con l’unicità e peculiarità che riveste il vescovo di Roma che non è né può essere considerato un primus inter pares all’interno del Collegio episcopale. Alcune voci contrarie si erano espresse nei giorni seguenti, ma l’espressione sembrava andare di pari passo in analogia con quella del vescovo di una diocesi quando rinuncia a norma del Codice di diritto canonico. Fatto, comunque, che non avviene per un vescovo titolare quando raggiunta l’età canonica conserva il suo titolo. La cosa non è senza significato. Il vescovo per sua stessa natura deve sempre avere un riferimento con la diocesi che sia essa effettiva o antica e non più esistente. Senza una Chiesa non c’è vescovo. Si tratta di capire se l’analogia con il vescovo emerito di una diocesi possa essere applicata anche al vescovo di Roma”. Parole sulle quali meditare in futuro.

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