Con Xi Jinping giovane settantenne al suo terzo e solido mandato (un potere che nessuno a Pechino aveva dai tempi di Mao Zedong) la Cina finalmente può svolgere il ruolo internazionale che lo status di seconda potenza globale le impone. Pandemie e guerre sono accidenti della storia, il destino di una nazione che vuole realizzare il moderno socialismo è su altri orizzonti.

Lo si vede dalla prudente lungimiranza con cui Xi Jinping si sta muovendo, sul fronte della guerra in Ucraina, al fine di fermare il conflitto e non come fa l’Occidente per fomentarlo, il che è dimostrato dalla recente telefonata del leader cinese a Volodymyr Zelensky. Basta ciò per mettere il gigante asiatico in plateale contrapposizione con le consolidate strategie (e trame) di egemonia globale portate avanti dagli Stati Uniti. Una novità rivoluzionaria: multipolarismo di stampo cinese contro il consensus di Washington cementato in anni di dominio incontrastato.

Un amico esperto di Cina che ha vissuto lì per venti anni, parla mandarino ed è addentro alla politica, alla cultura e al business del Dragone, mi fa notare che l’assunto da cui di solito si parte è però sbagliato. Ovvero, secondo lui la Cina ha oggi una posizione avvantaggiata rispetto all’America. Vista globalmente, ovvio, non dal cortile di casa.

Nel nuovo scenario geopolitico creatosi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, gli Usa sul fronte economico hanno di fatto meno opportunità da porre sul piatto di molte nazioni non allineate, cioè al di fuori del piccolo club formato da Europa & Nato dove quasi tutti i soci sono ricchi e armati. Gli affari prima di tutto, il consenso politico segue, Washington va al sodo, spiega l’esperto: “Se a un certo punto il patto non va più bene, gli Stati Uniti ti escludono dai flussi finanziari, impongono sanzioni e magari ti bloccano le riserve valutarie (in dollari). Ecco perché nel mondo stanno crescendo gli scambi commerciali in yuan”.

Ma in un futuro non sappiamo quanto lontano, il giorno in cui Pechino comincerà a chiedere ai propri alleati vecchi e nuovi (non saranno pochi da qui al 2050 sui 193 delle Nazioni Unite) di “scegliere” da che parte stare, come oggi fanno gli Stati Uniti con i loro alleati, allora il Dragone potrebbe perdere ogni potenziale influenza geopolitica che nel frattempo sarà riuscito a conquistare, non solo in Africa, e non solo con la Belt & Road Initiative. Insomma libero scambio ma niente ricatti.

Attualmente l’America ha un forte potere di “persuasione” sul fronte economico internazionale (per non parlare delle testate nucleari). Funziona in modo spiccio, né etico né ideologico. Washington dice: tu paese X, usi il dollaro per i tuoi scambi commerciali? Allora stai attento a non sgarrare perché mal te ne incoglierà. Vuoi esportare le tue merci in America senza pagare dazi? Sorry, impossibile, anche se l’attuale presidente che si ricandida a 80 anni non lo è, il partito repubblicano pratica a man bassa il protezionismo. E via dicendo.

E noi italiani come ci poniamo di fronte a simili scenari? Quando in Italia anche la nuova destra al governo (ammesso che il complotto finanziario contro il Paese “anello debole dell’euro” non scatti prima) si accorgerà che è poco sagace, e soprattutto non nei nostri autentici interessi, continuare ad essere pedina ossequiente e allineata dell’America, Roma forse potrà evitare di subire l’effetto boomerang del revanscismo anti-americano e anti Occidente che con calma, ma con forza e consapevolezza, sta montando nel resto del mondo.

Le nuove alleanze in funzione anti-americana dei Brics+ (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – mentre Riyadh, Ankara e Il Cairo si sono già impegnate nel processo di adesione) richiederanno tempo per essere sviluppate. Ma la strada è tracciata. L’idea che il dollaro in futuro sia destinato a perdere il ruolo di valuta unica di riferimento nel commercio e nella finanza globali – sarà affiancato dallo yuan cinese in un’area geoeconomica con popolazione e Pil di enorme rilievo – non solo è l’incubo di Washington, ma è il fattore geoeconomico cruciale dei prossimi anni. Possibilmente astenendosi da faziosità o slogan da curva sud propalati da chi parteggia e non ha intenzione di capire dove il mondo va a parare.

La geopolitica di Xi Jinping, nel nuovo ruolo di leader di decine di Paesi che non vogliono essere allineati all’Occidente, unita alla circostanza che la Russia comunque vada con Putin sia destinata in futuro a dover ruotare come satellite della Cina, scatenerà con automatica ineluttabilità le peggiori pulsioni da parte dei neocon del deep state annidati al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca (chiunque sia il presidente Usa).

Qualcuno allora si chiederà: ma un’alternativa alla guerra globale c’è? Sì, per esempio che i governi interessati si siedano intorno a un tavolo, come al G20 o come a Helsinki nel 1975 – comunque non sotto la presidenza di uno Stoltenberg o chi per lui – al fine di discutere, sentendo le ragioni di tutti, e preparare gli assetti del Nuovo Ordine Mondiale in termini economici, di sicurezza e di cooperazione internazionale. Ma c’è un ma: chi è egemonico non mollerà.

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