L'ex calciatore ed ex ds di Roma, Lazio, Palermo e Bologna prorompe, finalmente, nel suo racconto di formazione che trasuda letteratura e stoffa romanzesca da tutti i pori
È avvolto in una nebbiosa nuvola di fumo di una sua sigaretta, Walter Sabatini, nella foto traslucida di copertina di Il mio calcio furioso e solitario (Piemme). Si morde la punta di un dito l’ex ds di Roma, Lazio, Bologna e Palermo; i riflettori di uno stadio illuminano di luce bianca spicchi di cranio e capelli; lo sguardo è tormentato, febbrile, tremante. Non capiamo quale match di calcio stia osservando Sabatini, sicuramente una sofferta rimonta per non perdere o retrocedere. Anche se è l’intuizione fotografica di una sofferenza grintosa e dolorosa a scorticare la curiosità del lettore che già sa, da pregresse conoscenze del protagonista di questa biografia in cui lo sportivo discettava di emozioni e sussulti letterari così mastodontici, naturali e travolgenti da lasciare attoniti, su come quest’uomo ha vissuto pericolosamente dieci anni di calcio giocato (’73-’83) e una trentina abbondante da direttore sportivo e qualifiche similari (’90- ancora in corso). Inoltre non basta sapere che Sabatini in ogni trasferimento e camera d’albergo si è portato dietro per anni pile di libri (Cent’anni di solitudine il suo must, ma anche tanto Sartre, Pessoa e Pasolini), perché questo groviglio di pulsante melanconico fremito esistenziale che si riassesta continuamente attorno ad un senso di colpa che grava come un macigno latente di isolamento e frustrazione, di riuscita professionale e di fatica sociale, è diventato un vibrante romanzo di straordinaria e articolata formazione (personale e calcistica).
Che Sabatini abbia la stoffa dello scrittore è punto dirimente che non conosce editor alcuno (o meglio: se c’è un editor è un genio della mimetizzazione). Perché qui siamo di fronte a un Eduardo Galeano o un Osvaldo Soriano, alle pagine misconosciute di Sandro Santori (Marcello libero, Alberto stopper o Ritornano, ritornano), a un millimetrico impianto di scrittura, di costante intensità di tono, di grumosa costruzione sintattica, di raffinata elaborazione lessicale, di un linguaggio peculiare che sfiora dolci figure retoriche (“la loro tenera fede cocciuta”) per accompagnare le gesta comuni di un ragazzino figlio di proletari di provincia (Marsciano, in Umbria) che cresce con l’ossessione del pallone, capisce che non sarà mai nemmeno un quarto di fenomeno, riconosce il proprio luccichio di un’intuitività pallonara nel selezionare talenti in erba e non solo, infine si scontra frontalmente con grinta e senza sconti patetici con i limiti di un corpo usurato dal fumo (“non fumavo sigarette inutili, ma solo celebrative, consolatorie o d’intrattenimento, arrivando a un totale di sessanta al giorno”) e da un’ansia profonda, ramificata, riottosa.
Alla base di Il mio calcio furioso e solitario c’è la trovata del libro biografico che Sabatini rivolge al figlio Santiago, ma come scrive l’autore stesso nello scrivere “non ambivo alla catarsi”. Semmai il libro è intriso di un maturo e crudo materialismo storico-sociale, mezzadria, polvere di mattoni, tentazioni semplici e terrene, che lega l’approccio urgente di un maneggiatore di contratti milionari dei calciatori con le radici semplici e popolari di uno sport trasformato in bolla finanziaria speculativa. “Ho un meraviglioso rapporto con i soldi. Li spendo, alacremente e gioiosamente, per me e per le tavolate di amici, niente di speciale ma lo faccio con leggerezza. Ci sono però cose che non capisco. La prima tra queste è l’accendersi di dispute su contratti che possono variare, ad esempio, tra quattro a cinque milioni. Ma che differenza fa? Davvero, che differenza fa? Non vi bastano per essere felici e elargire un poco di felicità attorno a voi?”. La voce di Sabatini ha l’equilibrio e la prepotenza dell’antico che si protende facendo ombra sul moderno, della generosità e della conoscenza che ottunde la superficialità di un individualismo edonista. Ed ogni volta, in ogni capitolo, per ogni maglia che ha indossato, per ogni società a cui ha prestato servizio, per il calcio inteso come sistema di elementi chimici valoriali e di filosofia del quotidiano, Sabatini fa filtrare le sensazioni umane, le controversie personali, lo stridore del tradimento, le effimere glorie del successo come se ci trovassimo in una magmatica e solenne tragedia greca. De Il mio calcio furioso e solitario potremmo scrivere pagine su pagine, ma non potremmo mai staccarci da una sorta di energia fisica che trasuda dalle parole del Sabatini claudicante e zoppicante come un omerico Ettore che attende invano Achille ad infilzarlo, da un preciso e nitido substrato etico che si riversa continuamente nel contemporaneo (“le plusvalenze nette senza scambi di giocatori”; Pasolini che “avrebbe riso del nostro calcio: buchi incolmabili in quasi tutti i club e manovre audaci e grossolane per porvi rimedio”), fino a quella febbre continua dell’essere più che del fare, all’odio per le vacanze e per l’agosto inconcludente; all’ “insoddisfazione sfida occulta, con me stesso prima con il calcio poi”. I libri, del resto, vanno fatti parlare: “Ma la fortuna non ci tende agguati, esiste in un altrove tutto suo, non in forma plastica ovviamente, ma in miliardi di elettroni in movimento, che noi dobbiamo sapere reclutare attraverso comportamenti e pensieri ossessivi”. Dategli un premio letterario a quest’uomo. Lo merita tutto.