“Come fa l’Europa a stare ferma, immobile, mentre osserva la sponda sud del mediterraneo divorata dal fuoco, senza capire che ad essere mangiato da queste fiamme è anche il suo stesso volto?”. E’ una domanda che continua a porre Nouri al Jarrah, poeta siriano, classe 1956, dopo decenni alla ricerca di una identità, culturale e sociale, che leghi le due sponde ormai divise da una storia lunga secoli.
Eppure, continua al Jarrah, “com’è possibile che la coscienza europea non provi dolore, voltandosi dall’altra parte mentre lascia soli chi ha dato loro l’alfabeto, l’arte, ha costruito città mentre Roma era un villaggio di pastori e ha insegnato loro a fare il vino?”. Possibile che “oggi lasciarli soli significhi abbandonarli alla traversata del mare Mediterraneo?”. Non a caso la raccolta di poesie scelte – appena pubblicata, tradotta dalla professoressa Francesca Maria Corrao, si chiama Esodo dall’abisso del Mediterraneo, edita da Le Monier Università.
Il tema dell’esodo è ormai diventato uno dei punti cardine nell’immaginazione poetica di al Jarrah. Ne sono la prova le sue precedenti raccolte di poesie, come “Una barca per Lesbo”, tradotta da Gassid Mohammed per L’Arcolaio, in cui, ancora, la traversata dei siriani, nuovi figli di Ulisse e delle macerie di Troia, è il perno dell’elegia. Per il poeta sono i figli come Telemaco a dover occupare il primo piano, passando dall’essere antieroi a protagonisti di una nuova Odissea moderna.
Un’avventura che per lo stesso al Jarrah comincia in giovane età quando è costretto a lasciare Damasco e la Siria perché, come tutti gli intellettuali, diventa inviso al regime della famiglia Assad. Prima tappa Beirut, dove, poco più che ventenne, conosce e si fa conoscere dai grandi poeti arabi dell’epoca. Poi un peregrinare che lo porta prima a Cipro per poi approdare negli anni Ottanta a Londra. E’ qui, nel freddo nord, che al Jarrah mette radici e continua la sua attività poetica – oltre venti raccolte di poesie – accompagnata da una intensissima attività giornalistica.
Fonda infatti diverse riviste. Fra tutte, bisogna ricordare Al Katiba, “la scrittrice”, 1993-1995, prima magazine nel mondo arabo dedicato esclusivamente alle autrici arabe. Mentre ad oggi continua a dirigere il premio Ibn Battuta e il Centre for arabic geographical literature. Il Mediterraneo, distesa d’acqua e di corpi, non è solo l’involontario carnefice di esodi biblici, ma genitore ormai abbandonato. E’ il Mediterraneo, dice al Jarrah, a rappresentare la nostra identità culturale. “Sono un poeta mediterraneo. Arabo o europeo sarebbero identità parziali”.
E’ nella riscoperta di ciò che abbiamo in comune, a nord e a sud del mare di mezzo, che potremmo trovare le risposte all’apatia odierna. Quella che ci rende ciechi a un paese distrutto, come scrive in questi versi: Dormi nelle tende di Siria / da Acri ad Aleppo è un paese di tende/ dormi / amore mio dormi/ dormi nella coscienza morta del mondo, togli le tue mani dalla croce/ e alzati/ tu sei vivo. Una assenza di riconoscimento che si tramuta in una totale indifferenza, quasi fastidiosa. Erano giovani siriani/ o avventurosi macedoni in attesa di una barca per Atlantide/ giovani con zainetti in spalla vengono alle porte e se ne vanno, parlano una lingua straniera ai cellulari/ con voci simili ad ali spezzate…
Cercando agli angoli delle nostre città; ai margini di qualche monumento o bussando alla porta di casa vicino a noi, potremmo ascoltare voci diverse. Voci che ci raccontano di un esodo alla ricerca di non una ma tante Itaca. Di milioni di esseri umani costretti all’esodo: un fluire costante verso l’esilio al quale Nouri al Jarrah, esiliato a sua volta, tenta di dare un volto chiedendoci di guardarci allo specchio per vedere l’altro.