Come valutare la risoluzione del fronte progressista sul Def? Operazione piuttosto difficile perché il documento risulta una pregevole enunciazione di principi ma non contiene proposte concrete. Sarebbe stata molto più utile ed interessante la preparazione di un contro Def dettagliato, che entrasse nel merito di tante questioni. Certo ai progressisti le competenze non mancano, ma c’è una sorta di rituale timidezza. Mi vorrei soffermare però su di un elemento che considero particolarmente debole e che mostra, ancora una volta, come i progressisti si muovano spesso, sbagliando, sul sentiero dei conservatori creando non poca confusione. La sinistra dovrebbe avere il coraggio di fare le sue proposte di politica economica, quelle coerenti con i suoi valori, e non di prendere a prestito quelle degli avversari politici.

Mi riferisco al punto in cui la mozione invita il governo a sostenere il potere di acquisto dei salari. Intenzione ottima ma è lo strumento scelto che risulta molto discutibile e controproducente. Anche i progressisti come via maestra indicano il taglio del cuneo fiscale. Questo provvedimento straordinario è stato introdotto temporaneamente da Draghi, fatto proprio, sempre temporaneamente per il 2023, dalla Meloni e ora indicato anche dai progressisti. Tutti sono d’accordo su questo punto. Questo unanimismo fiscale è altamente sospetto. Significa che qualcosa non funziona, ed anzi è controproducente per i progressisti.

Prendiamo il problema alla lontana. Un tempo Confindustria si lamentava per il costo del lavoro troppo alto in Italia. Il costo del lavoro orario è costituito da tre parti: il salario netto, l’Irpef ed i contributi sociali. Queste ultime due componenti rappresentano il cuneo fiscale: la differenza tra il costo del lavoro e il salario netto. La tesi di Confindustria è stata sempre smentita dai dati di Eurostat, poiché il costo del lavoro in Italia è più basso di quello dei nostri concorrerti, ma soprattutto dalla realtà economica attuale, visti i pingui profitti che nell’ultimo anno derivano dall’inflazione bellica.

La guerra ha creato una forte inflazione che ha eroso in maniera notevole i salari. E allora ecco che si propone la riduzione del cuneo fiscale, quello pagato dai lavoratori, per risolvere il problema. Poiché l’Irpef è stata rimaneggiata più volte al ribasso, la soluzione ecumenica è quella di tagliare i contributi sociali. Come ha dimostrato Bankitalia, questo provvedimento aumenterà di 15 euro i salari mensili, cifra che dovrebbe far arrossire il ministro Giorgetti. La domanda però è chi paga questo modesto incremento dal momento che non esistono pasti gratis. La risposta è semplice. Il costo graverà due volte sulle casse dell’Inps: ora per il mancato incasso e in futuro per l’esborso pensionistico perché i contributi tagliati comunque matureranno diritti pensionistici. In sostanza la politica, destra e sinistra, scarica sulla finanza pubblica i costi dell’inflazione.

Ma questa non può essere la scelta prioritaria della sinistra. L’inflazione attuale ha gonfiato i prezzi e dunque anche i profitti, distorcendo la distribuzione dei redditi a favore delle imprese e del lavoro autonomo. Una proposta seria del fronte progressista non può ignorare il tema dell’aumento dei salari ma nemmeno scaricare tutto sulla finanza pubblica. La paura che si crei anche oggi un effetto anni Settanta, la cosiddetta spirale prezzi-salari, ha prodotto l’effetto opposto: lo schiacciamento dei salari ad opera dei profitti. A questa distorsione occorre porre rimedio in maniera naturale in una economia di mercato, cioè attraverso la crescita dei salari. È quello che le imprese stanno già facendo elargendo dei bonus. Il sostegno al potere di acquisto dei salari non può essere a carico della finanza pubblica ultra-indebitata, troppo facile e disonesto.

D’altra parte la recente esperienza americana insegna. Negli ultimi due anni negli Usa i prezzi ed i salari sono aumentati di pari passo con la crisi energetica e l’inflazione ora si sta riducendo senza alcun intervento esterno. Nessuna spirale perversa ma solo il gioco naturale delle forze economiche. L’inflazione non è colpa dei salari come sostiene, nei fatti, la destra. Accettare questo dogma per la sinistra sarebbe un suicidio, morale prima che elettorale.

Quale potrebbe essere allora una genuina proposta progressista? Se si vuole sposare la politica della prudenza, ma sarebbe ora di finirla con questa sterile timidezza, un buon punto di partenza potrebbe essere quello di sostenere la proposta di un aumento salariale generalizzato del 50% per tutti i contratti, e poi lasciare l’altro 50% alla contrattazione nazionale e aziendale. In questo modo la sinistra uscirebbe dalla enunciazione di vaghi principi e si farebbe ascoltare dai lavoratori e dai pensionati.

Doverosa la battaglia sul salario minimo, che riguarda circa due milioni di persone. Ma la sinistra non può perdere la battaglia per la dignità anche del salario normale che riguarda 10 milioni di persone. Lasciamo che sia la destra a rincorrere un salario assistenziale offerto dallo Stato che comunque non può essere dato. Il campo dei progressisti è quello del confronto con le imprese e i loro extra-profitti che devono tornare ai lavoratori. Per riconquistare gli elettori servono proposte chiare, semplici ed operative. Le molte enunciazioni della risoluzione, anche se ampiamente condivisibili, rischiano di sembrare aria fritta. E comunque sarebbe del tutto sbagliato, e anche molto pericoloso, che la sinistra inseguisse la strada della demagogia fiscale che comincia ad essere un cappio al collo al governo della destra nostrana.

Dietro il taglio del cuneo fiscale c’è l’ideologia liberista dello smantellamento dello stato sociale. Questo punto deve essere tenuto sempre ben presente, se il fronte progressista vuol tornare ad essere credibile e a vincere.

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