di Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo)
Roberta Gatani (nipote del giudice Paolo)
Paola Caccia (figlia del Procuratore Bruno Caccia)
Angela Manca (madre del dott. Attilio Manca)
Stefano Mormile (fratello di Umberto Mormile)

I servizi televisivi e giornalistici sulla sentenza della Cassazione sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” ci hanno lasciati, solo per breve tempo per fortuna, senza parole.

Appena ripresi dallo shock, sono emersi in noi una rabbia e un senso di ingiustizia che non possono trovare sfogo utile se non sulla carta, attraverso l’unico strumento che ad un cittadino, soprattutto se familiare di una vittima di mafia, resta: la parola.

Non entreremo nel merito della sentenza, poiché ancora non ci sono le motivazioni e perché comunque non avremmo le competenze necessarie per commentare gli aspetti giuridici di questa.

Qualche pensiero sul comportamento della stampa italiana, però, sentiamo il dovere di esternarlo, partendo da alcune frasi che abbiamo trovato non solo inaccettabili ma anche vergognose, che riassumiamo così:

“Qualche Pubblico ministero oggi dovrebbe chiedere scusa”.
“Il teorema della trattativa Stato-mafia è stato demolito”.
“I vertici del R.O.S. dei Carabinieri sono eroi perseguitati”.

In quale Stato democratico viene chiesto ad un Pubblico ministero di scusarsi a seguito di una sentenza di assoluzione? I Pubblici ministeri perseguono reati, indipendentemente dalla professione e dal potere del soggetto indagato. Indagano, cercano prove e, se le ritengono sufficienti, chiedono ad un giudice di andare a processo. Un processo penale non è un’analisi del sangue, nella quale se i valori della glicemia superano di molto la soglia massima stabilita a livello internazionale tutti i medici del mondo sono concordi nella diagnosi di iperglicemia. Le prove e i comportamenti, in un processo, vengono interpretati dai magistrati, per questo abbiamo più gradi di giudizio, per essere certi che l’interpretazione sia corretta e che quindi l’imputato sia realmente colpevole o innocente.

Non abbiamo MAI sentito prima d’ora una pretesa di scuse da parte di avvocati, imputati e, soprattutto, giornalisti, eppure di processi eccellenti finiti in assoluzioni ce ne sono stati: da quello per l’omicidio di Piersanti Mattarella (per i due imputati neofascisti), a quello per la strage dell’Italicus, per la strage di Piazza Fontana (per Franco Freda e Giovanni Ventura), per associazione sovversiva a seguito del tentato Golpe Borghese, per il “depistaggio di Via D’Amelio”. E che dire del giudice dell’udienza preliminare che ha rinviato a giudizio gli indagati del processo trattativa? O dei giudici della Corte d’assise di Palermo che addirittura li ha condannati in primo grado? Dovremmo forse pretendere le scuse anche da loro?

Perché, ci chiediamo, questo accanimento contro i Pm del processo trattativa e, in particolare, contro Nino Di Matteo? Che fili della tensione ha toccato? Di che crimine di lesa umanità si è macchiato? Processare le alte sfere del potere degli apparati? Far ammettere ad una serie di politici della prima (ma anche della seconda) Repubblica di aver taciuto per decenni elementi fondamentali per la storia politica del nostro Paese?

Passiamo al “teorema della trattativa” che sarebbe stato demolito. Questa è una vera e propria mistificazione della realtà. La trattativa tra esponenti apicali del R.O.S. dei Carabinieri (l’allora colonnello Mario Mori e l’allora capitano Giuseppe De Donno) e soggetti appartenenti alla mafia corleonese (Vito Ciancimino) è stata ammessa nel processo “Tagliavia” di Firenze dagli stessi autori, oggi santificati, Mori e De Donno. Non lo diciamo noi ignoranti cittadini, lo dice una sentenza passata in giudicato. La Cassazione ieri ha “soltanto” stabilito che le azioni portate avanti con quella trattativa non integravano il reato ex. art. 338, “minaccia a corpo politico dello Stato”.

Ancora ci chiediamo: perché la stampa scientemente e, quindi, dolosamente, comunica notizie non corrispondenti al vero? Perché sceglie di negare un pezzo di storia italiana ormai certificata?

Ci dispiace, ma per noi quegli imputati assolti non sono eroi. Non è un eroe un politico condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, che non ha mai collaborato con la giustizia. Non sono eroi ufficiali dei Carabinieri che hanno pensato (Mori e De Donno) di intavolare una trattativa con la mafia di Bernardo Provenzano; che hanno commesso (Mori) “errori di valutazione”, come quelli descritti dai giudici nella sentenza sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, errori che hanno “comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato” (sentenza del processo “De Caprio + 1”, 20 febbraio 2006, pagg. 92-93 e 107); che hanno adottato (Mori) “scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano” (sentenza del processo “Mori + 1”, il 17 luglio 2013, pag. 1320), scelte che “inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell’operato dei due e lasciano diverse zone d’ombra” (sentenza di appello del processo “Mori + 1”, il 19 maggio 2016, pag. 336); che misero in dubbio (Mori) l’efficacia omicidiaria della bomba posizionata sotto la villa del giudice Giovanni Falcone all’Addaura, tanto da far scrivere ai giudici che “resta, comunque, il dato sconcertante costituito dalla circostanza che autorevoli personaggi pubblici, investiti di alte cariche e di elevante responsabilità, si siano lasciati andare, in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni le quali hanno finito per contribuire, sia pure indirettamente, a fornire – unitamente alla ridda di ipotesi anche fantasiose, più o meno artatamente divulgate – lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del Giudice di “inventare” la tesi, delegittimante, del “falso” o “simulato attentato, avendo i vertici di “Cosa Nostra” addirittura impartito l’ordine agli uomini dell’organizzazione di divulgare la falsa e calunniosa notizia che l’attentato ‘se l’era fatto lui stesso’” (sentenza della Corte di Cassazione sul fallito attentato all’Addaura, 6 maggio 2004, pag. 29); che ha sottoscritto, in qualità di direttore del SISDE, assieme all’allora direttore del DAP Giovanni Tinebra, quell’accordo tenuto segreto e passato poi alla storia come “protocollo farfalla”.

No, non chiederemo scusa a quegli imputati ma, certamente, non finiremo mai di ringraziare Nino Di Matteo e gli altri Pm del pool di Palermo, che non hanno avuto paura di indagare alcune tra le persone più potenti d’Italia, incuranti delle prevedibili – e puntualmente avvenute – ritorsioni di certa stampa e di certa politica (altro che “costruzioni di carriera”), e che hanno tentato (per alcuni sbagliando impostazione processuale, per altri no, non sta a noi giudicare) di affermare quel principio scritto in tutte le aule di giustizia italiane, “la legge è uguale per tutti”, che, agli occhi dei cittadini, sta diventando sempre più un’utopia.

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