Beau ha paura è un horror freudiano catalettico. Gli americani definiscono queste sfibranti torture cinematografiche (qui siamo peraltro attorno alle tre ore) con il termine “rabbit hole”, un tunnel narrativo/espressivo senza fine, con colpi di scena sì, ma sempre e solo tunnel su tunnel senza mai una destinazione finale. Insomma lo spettatore vagola nell’abisso psichico traumatizzato del protagonista Beau (Joaquin Phoenix, qui in versione paracarro che recita il ruolo del paracarro sotto psicofarmaci) in una manciata di set allucinatori, grotteschi e sanguinolenti collegati tra loro dal filo del sempiterno rapporto madre (ingombrante) –figlio (impietrito da quell’ingombrare).
Topica rimasticata dalla notte dei tempi, anche se Ari Aster, che già ci aveva turlupinato con una prestidigitazione sinistra in Midsommar (un thriller di Shyamalan venuto malissimo, per capirci), allunga un suo cortometraggio di qualche tempo fa (e si vede, e si sente) convogliando lo spunto di fondo al cospetto della presenza di un premio Oscar per incidere un impossibile spessore di facciata. Già, perché fraintendere che Phoenix si salvi dal naufragio generale per chissà quali motivi espressivi, quando invece questa impalpabile anonima inconsistente presenza (guardatelo quando si gira di schiena con il viso rivolto al muro verso la fine del film) affonda insieme all’intero fardello cinematografico, è prima di tutto mostrare come il re produttivo di questa modaiola casa di produzione A24 sia nudo.
Phoenix, infatti, mugola e piagnucola (“hellooo”) costruendo una devastante assillante monocorde lamentazione che pare non terminare mai, condita dal trascinarsi abulico di un corpo pesante e tumefatto in ogni dove e perfino da una sequenza full frontal in una vasca da bagno. Tutto ha inizio sul divanetto di uno psicanalista dove scopriamo che Beau (Phoenix), imbottito di pillole, dovrà raggiungere in aereo la casa di sua madre. Bean abita in un appartamento spartano e scrostato sopra un crocicchio urbano horror vacui impazzito ricolmo di tatuati, ubriachi, matti, assassini in perenne movimento. Alla base ogni cosa che accade (dai vicini che fanno rumore infernale al bancomat che non funziona) è sempre colpa di Beau. In un raro momento di relax il protagonista si addormenta e si risveglia a ridosso della partenza dell’aereo che non riuscirà mai a prendere. Beau vive anche in prima persona ogni genere di inspiegabile torto (gli rubano a valigia e le chiavi davanti all’uscio di casa, per dirne uno, e quindi non può definitivamente partire). Insomma, il protagonista vive dentro un incubo fluttuante e perenne, un inconscio gravido di ricorrenti paure e fallimenti (sessuali in primis) che lo porterà prima a farsi curare le ferite di un incidente nella casa di un’eccentrica coppia altolocata con figlio morto in guerra; poi in fuga dentro una foresta che cela un palco teatrale dove vengono messi in scena presente e futuro di Beau (e qui scatta pure una sequenza animata con Phoenix che invecchia con barba lunga modello Leonardo Da Vinci); e infine gli ultimi dedali: la casa di famiglia dove si sta smontando la cerimonia funebre della madre morta (chissà) è infine un set a forma di arena con piscinetta dove Beau si presenta guidando un’improbabile barchetta.
Ogni personaggio del film oscilla tra la dimensione onirica dello svitato e la bizzarria più acida (Denis Menochet che si trasforma in killer che sfonda le dimensioni spazio-temporali è una trovata banalmente ri-di-co-la). Mentre spazi, luoghi e racconto si (con)fondono in un continuum estetico sviluppato con fatica tra terrore, fiabesco e di conformistico kammerspiel. La sensazione è che piazzato, marchiato e reiterato il conflitto figlio/madre, Aster giochicchi a fare lo Spike Jonze e il Lars Von Trier, senza avere il brillante intelletto del primo e il genuino sadismo autodistruttivo del secondo.