Il recente omicidio di Barbara Capovani, psichiatra pisana, a opera di un suo ex paziente riporta in primo piano questioni rimaste a lungo nel cono d’ombra della discussione ideologica sulla malattia mentale e sugli approcci più efficaci per curare e reinserire nella società persone malate o che lo sono state. Al centro i servizi psichiatrici, poi i professionisti che ci lavorano, le modalità e i protocolli che sono tenuti ad osservare, le procedure di presa in carico e dimissione. Intorno, una galassia fatta dalle famiglie dei malati; poi la microsocietà di cui sono parte; infine dalla narrazione sociale e social della loro condizione e di quella dei servizi deputati ad assisterli, spesso a contenerne le manifestazioni ritenute pericolose o destabilizzanti per la società.
Come sempre accade per le malattie “organiche”, anche la famiglia del paziente psichiatrico si aspetta la guarigione o, comunque, un efficace contenimento delle manifestazioni acute per evitare di essere distrutta dal peso delle conseguenze e dall’ansia di ciò che potrebbe provocare. Emblematiche le dichiarazioni dei famigliari del presunto omicida, perfino quando accompagnate dalle scuse drammatiche alla famiglia dell’uccisa. La zia dell’omicida: “Chiedo scusa, lo Stato doveva aiutarlo”. Lo Stato probabilmente l’ha aiutato, le leggi e i protocolli sono stati rispettati, ma niente di tutto questo è servito a evitare il delirio e poi il delitto. Anche in questo la lettura sociale della malattia mentale differisce dal quella delle altre: nessuno pretende che le terapie tumorali producano sempre comunque un esito positivo, di solito spera.
Il delirio, poi, è alimentato con sempre maggiore potenza dalla narrazione che chiunque può costruire (e trovare) sui social: la negazione della malattia mentale – quindi della necessità di cura -, perché strumento di oppressione sociale e di persecuzione del disordine antisistema, è uno dei temi che attraversano il complottismo di questi anni, con diverse sfumature e intensità. D’altra parte è ancora fresco il ricordo della funzione e del funzionamento dei manicomi, raramente per curare, certamente efficacissimi nel nascondere al resto del mondo i “pazzi”, a volte solo vittime di emarginazione sociale.
Passo tutti i giorni di fronte alle rovine di Villa Azzurra, il manicomio dei bambini, e ho avuto l’occasione di vedere quei padiglioni ancora in funzione, prima che l’entrata in vigore della Legge Basaglia intervenisse a stabilire che il malato psichiatrico ha diritto all’autodeterminazione, in riferimento alla propria cura, al pari di qualsiasi altro malato. Eccezione: la condizione in cui, per la sua e altrui scurezza, si renda necessario intervenire in modo coercitivo mediante un TSO, Trattamento Sanitario Obbligatorio. Un medico lo richiede, l’ASL verifica e certifica l’urgenza della richiesta, il sindaco firma il provvedimento di ricovero coatto in struttura ospedaliera protetta (il repartino), eseguito dalla forza pubblica.
La furia omicida di Paul Seung contro la sua ex psichiatra sul piano giuridico e professionale genera una contraddizione davvero dolorosa. Nel 2017 è entrata in vigore la modifica dell’art. 590 sexties del Codice Penale, relativa alla “colpa medica”. In mancanza di linee di indirizzo efficaci, lo/la psichiatra che ha in cura l’autore di un reato può essere chiamato in causa con l’accusa di omissione penalmente rilevante. A Roma due anni fa: si rifiuta di prendere gli psicofarmaci prescritti e in preda ad allucinazioni uccide un amico a coltellate, lui assolto, gli psichiatri nei guai. Il responsabile del Centro di Salute Mentale, chiamato in causa dai legali dell’omicida, è stato condannato a 8 mesi per concorso colposo in omicidio volontario; i due psichiatri rinviati a giudizio per omissioni in atti d’ufficio.
In pratica, il magistrato ha sancito che la struttura che doveva curare il paziente non ha fatto tutto quello che avrebbe dovuto e ha perciò concorso a determinare la condizione del delitto. Si provi ad immaginare che cosa comporterebbe l’applicazione dello stesso principio, per esempio, a tutti i delitti commessi da soggetti ubriachi o sotto l’effetto di stupefacenti.
L’86% degli psichiatri ha subito delle aggressioni da parte di pazienti. Tra il 1998 e 2013, in Italia sono stati uccisi 13 psichiatri, certifica uno studio condotto dall’Anaao-assomed. Nella categoria comincia a serpeggiare il panico e si teme un aumento dei TSO in autotutela, così è partita l’iniziativa chiedere al Parlamento di modificare l’art. 590 sexties del CP, liberando gli psichiatri dalle responsabilità di controllo e garanzia dell’operato futuro del paziente. Promotore il neuropsichiatra Antonio Milici, responsabile del Coordinamento per la salute mentale della Regione siciliana, che ha riunito 550 colleghi nel gruppo Psichiatria Reale: “Secondo recenti sentenze della Cassazione il medico è responsabile del comportamento del paziente anche quando non è soggetto al TSO – afferma Milici in un comunicato stampa del 20 marzo scorso – con il risultato che allo psichiatra viene attribuita la colpa quando l’assistito compie atti aggressivi o lesivi […]. E questo è ancor di più una contraddizione in psichiatria che, come tutta la medicina, non è una scienza esatta ma sperimentale. Del resto i principi della psichiatria impongono, laddove ci siano le condizioni, il reinserimento del malato nella società. E’ evidente che questo comporta dei rischi. […]”.
Così, a fronte della tragedia della dottoressa Capovani, c’è chi bercia contro la Legge Basaglia chiedendo la riapertura dei manicomi; c’è l’imbarazzo di coloro che hanno governato per tutto questo tempo con i tagli alla sanità di cui ancora non si coglie l’enormità e l’impatto sulla salute del Paese. Dove la chiusura dei manicomi è stata accompagnata, con le risorse necessarie, dall’istituzione di servizi di psichiatria territoriali e residenziali funzionanti e condivisi con le comunità locali, i risultati sono stati eclatanti e presi a modello nel resto del mondo. Dove tutto questo è rimasto sulla carta il peso dei malati è stato scaricato sulle famiglie e sui servizi, stressandoli oltre misura.
Mentre piangiamo la dottoressa Capovani dovremmo piangere anche questo paese che butta via il buono perché non è capace di riconoscerlo e non sostiene adeguatamente chi lavora per costruirlo. Perché, come ci ricorda Alberto Gaino, “legare anziani e bambini resta un affare”.