“Karl Lagerfeld rimarrà un mistero per sempre, come la sua vita. Meglio così, perché quando si vuole essere mitici, certe cose devono restare nascoste, nell’ombra”. Con queste parole di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, si chiude “Karl“, l’opera magna di Marie Ottavi. La giornalista di Libération ci consegna un appassionato e corposo memoir del genio della moda, settecento pagine in cui ripercorre la vita e la carriera di Lagerfeld (1933-2019) ma, soprattutto, ricostruisce l’epoca d’oro della moda del secondo Novecento con minuzia storiografica e verve narrativa da grande romanziera. Nonostante la mole, infatti, questo volume – pubblicato in Italia da L’Ippocampo – risucchia il lettore, tenendolo incollato pagina dopo pagina con un racconto appassionato di gran lunga più fiabesco che meramente biografico. D’altra parte, non poteva essere altrimenti visto il personaggio e, soprattutto, gli splendori di una Parigi in gran fermento creativo, dove le storie di stilisti, artisti e celebrità si intrecciavano dando vita a liason non solo amorose. Prendendo spunto da due lunghe interviste che il designer tedesco le rilasciò nel 2017, l’autrice ricostruisce, con una scrittura incalzante e pungente, le innumerevoli vite “di questo creatore ispirato, dotato di un’immensa cultura, esagerato nei modi, altero e igienista, re delle frecciatine e delle battute”, svelandone segreti, passioni, pulsioni e soprattutto contraddizioni. Il risultato è un volume documentatissimo, ricco di testimonianze degli “intimi” di Karl Lagerfeld: da Carolina di Monaco a Silvia Fendi, da Bernard Arnault a Inès de la Fressange, fino a Tom Ford e a, appunto, Alessandro Michele; da cui si riemerge con la consapevolezza che Karl Lagerfeld sia riuscito, ancora una volta, a convincerci dell’immagine che ha voluto lasciare di sé.
Il kaiser della moda è stato, infatti, fin da bambino un abile manipolatore della sua storia personale, a incominciare dall’età: “Un’età ce l’ho, ma piuttosto mi invecchierei, sarebbe ancor più sorprendente. La mia età sono io a deciderla. Sono intergenerazionale, quindi la mia età importa poco, ne sono svincolato. E per questo non ho alcun concorrente”, rispondeva a chi gli chiedeva conto dell’aver trasformato il suo anno di nascita dal 1933 al 1938 con un semplice grafismo. E non lo fece per la sola velleità di ringiovanirsi e di mostrarsi – soprattutto in gioventù – come talento precoce, ma soprattutto per svincolarsi da possibili allusioni e associazioni con il nazismo, a cui il padre Otto fu vicino. Non facile, d’altra parte, essere un tedesco a Parigi nell’immediato secondo Dopoguerra. Devoto e – a tratti succube della madre, Karl è vissuto letteralmente in venerazione di questa donna dura e spigolosa, che fin da bambino ha formato il suo carattere: il sogno del piccolo Karl era infatti quello di diventare pianista (“i pianisti hanno un potere magico”, sosteneva), invece sua madre Elizabeth, non sopportando le stonature e il suono della musica, un giorno gli ordinò: “Disegna, fa meno rumore”. Ed ecco che lui si cimentò anima e corpo nel disegno. E fu sempre lei a spingerlo a lasciare Amburgo, la sua città natale: “Devi uscire di qui!“, gli disse. E Lagerfeld obbedì, trasferendosi a Parigi e compiendo il suo destino.
Lì infatti conobbe il giovane Yves Saint Laurent, anch’egli arrivato da “espatriato” nella Ville Lumiere, carico di nostalgia per la sua Algeria: avevano appena vent’anni, sono ambiziosi, creativi, spensierati e determinati a farsi strada nella moda. Divennero subito amici, passando le notti a ballare con le loro ragazze, le modelle Victoire e Anne Marie, nei locali più trasgressivi dell’epoca. Ma la vita presto li divise: Yves consacrò presto il suo successo raccogliendo l’eredità di Christian Dior, Karl approdò da Balmain ma non tardò a capire che la sua realizzazione non sarebbe stata altrettanto immediata. L’algerino poteva godere infatti dall’appoggio di mentori che lo facilitarono nel suo ingresso nella moda, mentre lui non ebbe mai alcun aiuto, dovendo sempre lavorare molto di più per ottenere la stessa cosa. L’arrivo di Pierre Bergé prima e poi del comune amante Jacques de Bascher li divise definitivamente. Sullo sfondo, ci sono i ruggenti anni d’oro del boom economico, i decenni dai Cinquanta ai primi Novanta, anni di piaceri libertini e perdizione, di ricchezze, eccessi, lusso e scandali, narrati da Ottavi con un’audace dovizia di particolari che la porta a sciorinare ogni recondito retroscena delle vite di Lagerfeld e Saint Laurent, senza pudori né censura, anzi, parlando con leggerezza e massima franchezza di quell’omosessualità che all’epoca era un tabù. E se Yves ha perso sé stesso nel vortice dei vizi e della lussuria, Karl ha vissuto invece quasi monasticamente, lontano da alcol e droghe e appagando la propria sessualità solo marginalmente, con il rifiuto dell’approccio carnale a cui preferiva, invece, quello assolutamente platonico: tale è stata la sua storia d’amore con Jacques de Bascher, “un aristocratico che non ha paura di niente” e nemmeno freni inibitori, finendo poi stroncato dall’Aids. Karl “aveva i suoi libri, i suoi dischi, le sue cose. Non aveva bisogno del mondo esterno”, racconta l’amica Victoire Doutreleau in una delle pagine del libro.
Questo suo bastarsi a sé stesso, è un mantra che lo stilista si ripeté dall’infanzia fino alla morte e che lo portò a chiudersi sempre più al mondo esterno, buttandosi a capofitto nel lavoro. Un lavoro che lui ha approcciato come una missione più che come un’occupazione, lasciando presto l’atelier di Balmain dove era approdato a soli 21 anni per collaborare con diversi altri marchi, da Patou a Chloé, fino a Fendi e Chanel, dove consacrò il suo talento. Le cinque sorelle Fendi andarono in ambasce a Parigi nel 1964 per offrire a Lagerfeld la direzione creativa della pelletteria fondata dal padre nel ’25, incaricandolo di fare di dare una svolta all’azienda di famiglia: detto fatto, già con la sua prima collezione di pellicce “Fun Fur” Karl getta le basi per farne un brand di fama mondiale. Poi, nel 1982, l’iconico incontro con Alain Wertheimer, il proprietario di Chanel che, in cambio di un milione di dollari l’anno, gli chiese di “rianimare” la maison, finita in declino dopo la morta di Madamoiselle Coco. “Ha carta bianca”, gli disse. Lapidaria la replica del kaiser: “Il rispetto non è creativo. Chanel è un’istituzione, bisogna trattare un’istituzione come una puttana e allora se ne caverà qualcosa. Adesso cominciamo”. E non solo riportò il marchio agli antichi splendori, ma gli diede un lustro inaudito. Tutto questo daffare ebbe però un risvolto negativo sulla sua vita privata: inizialmente si sfogava sul cibo, arrivando a pesare 102 chili, poi si autoinflisse una dieta drastica. Dal primo novembre del 2000 al dicembre del 2001 perse 43 chili e da allora nessuno lo vide più mangiare pubblicamente. La trasformazione è sancita anche da un cambio di look: è da quel momento che iniziò a sfoggiare la “divisa” che l’ha reso iconico, con camicia bianca a collo alto con rouges, completo nero, mezziguanti neri, occhiali neri e i lunghi capelli candidi legati da nastro di seta anch’esso nero in una coda bassa. Con lui c’è sempre e solo Choupette, la sua amata gatta birmana “capricciosa, buffa, viziata, soprattutto silenziosa…”, unica presenza ammessa nella sua vita ed un’unica erede del suo impero dopo la sua scomparsa. “È la sola presenza che accetto, detesto la vita coniugale, non potrei mai lavorare, soprattutto leggere, se non fossi completamente solo”, diceva di lei.
E si arriva così alle ultime pagine, le più drammatiche e cariche di pathos. Difficile trattenere una lacrima davanti al racconto della lucidità con cui Karl si arrese alla morte, arrivata per mano di un cancro alla prostata che lui però definiva per pudore “al pancreas”, ritenendolo più elegante. L’ultima manipolazione della sua vita. O meglio, delle sue molteplici vite. La malattia gli fu diagnosticata nel 2015, mentre trascorreva uno dei suoi rarissimi periodi di vacanza in Costa Azzurra, località a lui cara. Combatté con tutte le sue forze per quattro anni, mantenendo il massimo riserbo sulla sua salute e lavorando indefessamente fino al febbraio del 2019: signore fino alla fine, fa preparare dalla sua fiorista preferita dei mazzi di fiori da inviare a quei pochi amici che sono la sua famiglia: la principessa Caroline, Françoise Dumas, Hélène e Bernard Arnault. “Quando ho ricevuto quei fiori, ho avuto paura”, ha confidato Hélène Arnault. Il periodo coincideva con il fashion month e lui aveva in programma due sfilate, a Milano con Fendi e a Parigi con Chanel. Non riuscirà a veder sfilare le sue ultime collezioni: “È incredibile possedere tre Rolls e finire in una camera schifosa come questa”, sono state le sue ultime parole, dette il 19 febbraio ad un’infermiera dell’ospedale americano della capitale francese, il più lussuoso di Francia. “Per il mondo sono scomparso“, è l’epitaffio che si è scelto, facendo suo questo verso di una poesia di Friedrich Rückert musicata da Gustav Mahler. Ed è stato effettivamente così: niente funerale, niente omaggi né tantomeno commemorazioni. È stato cremato alla presenza di pochissimi intimi, in una gelida mattina dell’inverno parigino. Le sfilate da lui organizzate sono andate in scena come da copione, in un clima di forte commozione. Karl era morto ma con i suoi abiti in passerella sembrava più presente che mai. Perché in fondo Karl era la moda. E la moda non muore mai.
Ps. A cinque anni dalla sua scomparsa, il 2023 sarà l’anno dei tributi a Karl Lagerfeld. Il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York gli dedicherà infatti una grande mostra, che verrà inaugurata come da tradizione con l’esclusivo Met Gala; e prenderanno il via le riprese del biopic sulla sua vita. A vestire i panni dello stilista sarà nientemeno che Jared Leto: un banco di prova notevole per l’attore, bocciato dalla critica per la sua interpretazione di Paolo Gucci nel film House of Cards.
Foto: @collezione privata
Articolo del 7 ottobre 2022