LA RICREAZIONE È FINITA - 3/3
Avevamo letto da qualche parte che La ricreazione è finita (Sellerio) di Dario Ferrari fosse un “romanzo universitario noir” e la qual cosa ci aveva stranamente incuriosito. Pensavamo a chissà quale intrigo accademico delittuoso in chiave soffusa ed oscura, invece, dopo aver letteralmente seccato questo libro in un pomeriggio/sera, ci accorgiamo che oltre ad essere presente in forma organica e diffuso in ogni pertugio del racconto (quasi 500 pagine) tutto il realismo dell’impunito e consuetudinario sistema di concorsi universitari truccati di ogni genere e grado, come di verticale gerarchico schiavismo fantozziano da corte medioevale, Ferrari ha scritto un fluviale, appassionato, tragicomico racconto politico, a suo modo profondamente classista, sull’incompletezza dell’essere umano di fronte al passato e alla propria irresolutezza rispetto al futuro. È un po’ con quello sguardo rivolto di lato de l’Angelus Novus di Klee che il trentenne Marcello Gora, “vitellone” viareggino di classe socioeconomica medio-bassa, vano cruccio della professione intellettuale in accademia, fidanzato con abbiente dottoranda in medicina, si rivolge al vulnus letterario/politico/rivoluzionario dell’ex terrorista viareggino Tito Sella morto in carcere negli anni novanta. Marcello risulta inatteso, e involontariamente manipolato, vincitore di una borsa di studio per un dottorato di tre anni che si svolgerà per metà a Parigi. È lì che il barone accademico suo superiore, professor Sacrosanti, vuole che acquisisca per primo gli scritti del fondo Sella che stanno per essere resi pubblici. Per il protagonista sarà una scossa umana, politica e sentimentale radicale che ribalterà il suo assioma del “non muoversi”. La ricreazione è finita, storica frase di De Gaulle ai rivoltosi del ’68, qui usata dagli strampalati terroristi viareggini tra cui Sella per passare all’azione violenta sul finire dei settanta, è il romanzo di (tarda) formazione, senza esplosioni di odio o cattiveria ma paradossalmente imbevuto di ampia indulgenza, che si inserisce filosoficamente in quella trasversale anagrafe letteraria (Cognetti, Missiroli, ecc…) che osserva generazioni e “impegno” del passato e per sottrazione si ritaglia un possibile risicato triste spazio di senso esistenziale nel presente; ma è anche un esempio letterario omogeneo e mirabile su come si possono abilmente tenere in piedi differenti dimensioni del discorso e del linguaggio facendo compenetrare, sviluppandolo in un ampio blocco centrale, il romanzo nel romanzo. Dopo aver esposto con una mimesi impossibile, se non per diretti accadimenti autobiografici, l’orrore conformista accademico, Ferrari apre (e chiude) una lunga ri-costruzione romanzata vergata da Marcello dei fatti di vita di Sella, gli accadimenti successivi tra compagni di lotta armata ipoteticamente sconosciuti fino ai fatti di sangue noti alla cronaca, con ulteriore sgargiante e appassionata mimetizzazione. Procedimento formale riuscito che porterà poi alle ultime 150 pagine con un paio di colpi di scena da deliziosa e matura letteratura d’intrattenimento di nuovo nel presente universitario di Marcello (c’è pure una coda romantica alla Manhattan di Allen). Il testo è poi disseminato di sottotrame mai lasciate al penzolamento (la fine cesellatura di caratteri, discorsi e posa di ogni collega universitario; l’apparizione radical chic di Tea) e soprattutto da decine di rivoli di tetragono penetrante umorismo che punzecchia l’editoria italiana (Calasso) e il sinistrismo dell’oggi (un articolo di Repubblica fake sui gilet gialli viene definito “vomitevole”). Infine, va dato spazio alla inevitabile, forse fin troppo telefonata, sovrapposizione Tito/Marcello (“imbarcati in qualcosa che era al di sopra delle nostre forze, ed entrambi siamo inevitabilmente capitolati”) appartenenti alla “peggiore” categoria, quella “degli incerti, dei dubbiosi” che “sta nel mezzo (…) tra predestinati e vincenti delle classi dominanti e “gli sprovveduti delle classi subalterne”. Voto: 8,5