La riduzione di 4 punti per sei mesi del cuneo fiscale stabilita dal governo Meloni con il decreto del Primo Maggio non è, con tutta evidenza, il “più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni” come la premier sostiene nel video diffuso sui social. L’esonero parziale dai contributi previdenziali (che peraltro non sono tasse) a carico dei lavoratori dipendenti vale infatti, stando al comunicato del Tesoro, “circa 4 miliardi“. Anche a voler sommare a quella cifra i poco meno di 5 miliardi complessivi previsti dalla legge di Bilancio per il 2023 per prorogare e potenziare la sforbiciata introdotta dal governo Draghi si arriva a 9 miliardi: comunque meno dei 10 che furono stanziati da Renzi nel 2014 per il bonus 80 euro. L’ex premier ha commentato che “Meloni non ha litigato solo con la politica: ha litigato prima di tutto con la matematica“, oltre a notare che i miliardi in realtà “sono tre”. In questo caso in effetti ha ragione.
Ma come arriva Meloni a rivendicare un record inesistente? Nel video pubblicato sul sito della presidenza del Consiglio – al posto dell‘attesa conferenza stampa con i giornalisti – la leader di FdI afferma innanzitutto che è stato “liberato un tesoretto da 4 miliardi grazie al coraggio di alcuni provvedimenti” e cita quelli su “Superbonus e accise”. In realtà come anticipato nel Documento di economia e finanza il taglio viene finanziato per oltre 3 miliardi sfruttando la differenza tra deficit tendenziale e programmatico che si è aperta grazie alla riclassificazione dei crediti di imposta da ristrutturazione edilizia decisa dall’Istat su indicazione dell’Eurostat. Le decisioni del governo non c’entrano, se non per il fatto che ha chiesto al Parlamento di poter utilizzare quel teorico spazio fiscale per “sostenere il reddito disponibile e il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti” (andando incontro peraltro alla imbarazzante débâcle di giovedì scorso alla Camera). In assenza dei testi definitivi non è noto, al momento, da dove vengano le rimanenti coperture.
Poi Meloni parla di un taglio che sarebbe senza precedenti negli “ultimi decenni”: “Tagliamo il cuneo di 4 punti e questo si somma a quello che avevamo già fatto in legge di bilancio. Abbiamo un taglio di 6 punti percentuali per chi ha redditi fino a 35.000 euro e di 7 punti per i redditi fino a 25.000 euro“. Sembra dunque che intenda presentare come un unico provvedimento il taglio deciso lunedì e quello già in vigore dal 2022 e confermato con la manovra portandolo dal 2 al 3% per i redditi sotto i 25mila euro. Il dubbio diventa certezza leggendo il comunicato del ministero dell’Economia, stando al quale “l’aumento nella busta paga dei dipendenti viene stimato, nel periodo luglio-dicembre, fino a 100 euro mensili di media“. In realtà l’aumento “nuovo” sarà al massimo di una sessantina di euro, come ha sottolineato nel corso della registrazione di Restart su Rai 2 il segretario della Cgil Maurizio Landini: l’altra parte deriva dallo sgravio già in vigore. Non solo: per arrivare a 60 euro (massimi) il governo ha dovuto rimangiarsi la promessa di far partire il taglio maggiorato da maggio e concentrandolo su un numero di mesi inferiore. In caso contrario secondo Bankitalia il beneficio medio sarebbe ammontato a soli 16 euro al mese.
Tornando al confronto con i governi degli “ultimi decenni”, lo stanziamento maggiore per ridurre le tasse a carico dei dei lavoratori dipendenti – al netto delle restituzioni chieste a chi si è rivelato troppo povero – l’ha previsto il governo Renzi con gli 80 euro riservati a chi aveva redditi fino a 24.600 euro. Il bonus costava 10 miliardi l’anno. Il governo Conte nel 2020 l’ha potenziato a 100 euro stanziando 3 miliardi per il periodo luglio-dicembre. Nel 2021 Draghi, nell’ambito della riforma dell’Irpef, ha deciso di abolire il bonus e utilizzare gli 8 miliardi a disposizione per la riduzione delle tasse destinandone 1 al taglio dell’Irap per imprese e autonomi e 7 non al cuneo ma alla revisione delle aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Decisione sfociata in una riforma che ha avvantaggiato maggiormente i redditi medio-alti. Lo stesso governo ha poi introdotto nel 2022 il primo esonero parziale (di 0,8 punti) sulla quota di contributi a carico del lavoratore, stanziando 1,8 miliardi. In estate l’intervento è stato potenziato destinando a quell’obiettivo altri 1,1 miliardi, in modo da portare il taglio a 2 punti complessivi.
Meloni è ripartita da lì. In manovra ha confermato il taglio, aumentandolo di un punto per i redditi fino a 25mila euro. Ora lo potenzia ulteriormente, ma solo per pochi mesi. Per riproporre l’aiuto nel 2024 bisognerà trovare in sede di approvazione della legge di Bilancio almeno 10 miliardi.