di Francesca Scoleri
L’Italia, intorpidita dall’incapacità – o dalla volontà – di governi che ci stanno portando ad un passo dai 3000 miliardi di debito pubblico e dalla ricadute drammatiche che ogni famiglia, ogni azienda e ogni cittadino pagheranno a caro prezzo, accoglie con visibile indifferenza le parole che escono dalla Cassazione. Si tratta della sentenza definitiva sulla trattativa Stato-mafia: prendere accordi con stragisti seriali non è reato anzi, fa curriculum – a vedere le prestigiose carriere di chi l’ha messa in piedi mettendosi successivamente in ginocchio davanti a caprari analfabeti che chiedevano l’annullamento di sentenze e potere politico.
Ottenuti entrambi senza troppe difficoltà, sono diventati tutt’uno con le istituzioni e le conseguenze di questa operazione ci riportano a quanto sopra premesso; povertà e corruzione. Ma bisogna riconoscere l’elevato potere comunicativo di questa sentenza; quel campo offuscato, pieno di enigmi e ambiguità in cui ogni giorno ci districhiamo è il sistema Italia.
Sono lontani i tempi in cui lo Stato, intenzionato a combattere la criminalità, agiva concretamente contro di essa; si pensi a come fu fermata l’onda dei sequestri di persona che negli anni 80-90 portava capitali nelle casse della ‘ndrangheta. Roberto Pennisi, sostituto procuratore della Repubblica della Dda di Reggio Calabria, nel 1993 dichiarò alla Commissione Parlamentare Antimafia: “Attualmente non c’è un grammo di cocaina circolante in tutto il mondo che non passi attraverso le mani
dell’organizzazione criminale calabrese e delle sue succursali del Nord e del Sud America, dell’Australia e dei vari Stati europei”. Un business foraggiato dai proventi dei sequestri di persona e secondo la medesima relazione: “Nell’anno in cui si approva la legge sul blocco dei beni, la ’ndrangheta chiude con i sequestri”. Imponenti sulle agenzie stampa e sulle prime pagine dei quotidiani la frase andata fuori moda ormai per legge: “con i criminali non si tratta”.
Un semplice cittadino normodotato, in due massimo tre semplici mosse, potrebbe ricostruire il passaggio degli accordi presi fra i trattivisti che non commettono reato trattando (potrebbe nascere un nuovo scioglilingua a rimpiazzo di quelli noti). Tutti i fatti post trattativa parlano molto più chiaro di questa e di altre imbarazzanti sentenze; mancate catture dei più pericolosi latitanti, l’arresto di altri ma senza perquisirne il covo per non risultare indelicati, revoca della misura voluta da Giovanni Falcone per i mafiosi che rifiutano di collaborare: 334 in un colpo solo escono dall’isolamento sotto la voce “coincidenza”.
Ma l’Italia, schiacciata dal peso della povertà che i figli della trattativa hanno generato nel pieno compimento di quello che affermava Falcone, “dove comanda la mafia, le istituzioni vengono tendenzialmente affidate a dei cretini” , dove la legalità cede il passo a metodi mafiosi, non riesce a comprendere il pericoloso livello di questa certificazione del male.
Ogni commemorazione delle vittime di mafia, proprio a causa del divario fra la volontà pubblica delle istituzioni di contrastare la mafia e quella occulta che ne favorisce le attività criminali, è diventata qualcosa che non si può né udire né vedere – men che meno reggere nella falsa solennità. Ci avviciniamo cosi ai 31 anni trascorsi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio sentendoci più affiliati alle cosche dei palazzi che non cittadini.