Il Primo maggio torinese ha avuto al centro il tema della guerra. Come ogni anno, il corteo era diviso in due: un blocco ufficiale costituito dai maggiori sindacati e dal Pd (con numeri piuttosto risicati) e uno antagonista, dei collettivi autonomi e neo-stalinisti, più comunicativo e partecipato. La polizia non è intervenuta, a differenza degli anni scorsi, contro i secondi a (presunta) protezione dei primi, ma la piazza ha saputo essere cartina di tornasole della condizione politica, anche nazionale, delle sinistre.

Per quanto apparentemente contrapposte, le fazioni in piazza erano animate da logiche speculari. Il Pd, favorevole a un invio acritico e non condizionale di armi al governo ucraino, incarna un ceto schierato da decenni secondo criteri puramente geopolitici, e mai di giustizia, a livello internazionale. La posizione è sempre e soltanto quella della Nato, nel modo più servile e dogmatico. L’apriorismo sospetto con cui il Pd sostiene la causa ucraina l’ha addirittura danneggiata, in questi mesi, di fronte all’opinione pubblica italiana, che ha percepito il carattere ipocrita e interessato di questo posizionamento. I confini nazionali e il diritto all’indipendenza sembrano infatti valori sacri quando imperi diversi da quello statunitense li mettono in discussione; non lo sono, e non v’è slancio al supporto militare degli oppressi, quando Usa, Israele o Turchia calpestano popolazioni intere o il diritto internazionale.

Contrariamente a quel che si potrebbe credere, il blocco antagonista è solidale con questa logica. Il criterio è identico, soltanto capovolto. Le cause nazionali, sociali o politiche che Usa e Nato individuano come funzionali ai loro interessi perdono automaticamente ogni interesse e ogni dignità umana o politica. (Questa severità non è d’altra parte applicata, almeno pubblicamente, a stati e regimi senz’altro non meno oppressivi). Poco importa se gli ucraini sono persone in carne ed ossa, bombardate e occupate come i curdi, i palestinesi o gli iracheni. Non meno che per i vertici Pd, per molti oppositori a targhe alterne della violenza e delle armi le vite concrete non contano: sono fotografie o ideogrammi cui applicare o togliere le bandierine di un risiko. Vale anche per i rifugiati: per il Pd quelli ucraini sembrano meritare un’accoglienza migliore di quelli che i suoi ministri hanno lasciato affogare nel Mediterraneo; per molti attivisti che lo contestano, famiglie bionde con gli occhi azzurri non possono rientrare nella categoria di “veri” profughi, perché non africani, non musulmani, o chissà.

In ottemperanza a questa mentalità, in piazza San Carlo il blocco antagonista ha dato alle fiamme le bandiere di Usa, Nato e Ue, guardandosi bene dal fare lo stesso con quella russa. Statement esplicito per cui l’avversario non è, sebbene lo si gridasse al microfono, il capitalismo, ma qualcosa di molto diverso: l’occidente. Ricordo ancora quando la pm Manuela Pedrotta, arcinemica degli antagonisti torinesi, supportò, per un apparente scherzo del destino, proprio questa visione in Tribunale. Proponendo la Sorveglianza speciale per i torinesi arruolatisi contro Daesh nelle Ypg curdo-siriane, mise in guardia dal considerare tali scelte motivate da una difesa anche dei civili nelle nostre società: “L’ideologia anti-capitalista” dei volontari rivelava la loro intrinseca “ostilità alla società occidentale”. Tale ignoranza aveva colpito allora, e oggi non colpisce di meno.

La vera colpa degli abitanti dell’Ucraina o di Taiwan non è aver commesso torti maggiori di altri popoli, le cui fazioni vengono supportate del tutto acriticamente da molti gruppi di sinistra, né ospitare elementi di destra, destinati a rafforzarsi là come qua soprattutto se la sinistra reale è questa. Loro colpa è preferire la democrazia liberale, con tutti i suoi limiti, all’autocrazia rosso-bruna. La democrazia liberale deve – io penso – essere criticata e superata, ma verso qualcosa di meglio. Essa è invece odiata dai tardo-comunisti non perché non abbastanza libera, ma per aver sconfitto un immaginario marxista che si è in verità sconfitto da solo, proprio illudendosi che intere popolazioni si sarebbero inginocchiate a chi voleva imporgli, in nome di grigie tecnocrazie o pure immaginazioni, la rinuncia completa alle libertà civili o nazionali.

La sinistra (fanaticamente) liberale e quella (confusamente) illiberale sono solidali nell’identificare le proprie politiche internazionali, mai internazionaliste, con lo schieramento a favore (o contro) questa (o quella) potenza. Di chiarire un modello di società alternativa per il pianeta neanche se ne parla, nell’uno come nell’altro caso. La passione rivoluzionaria per le insubordinazioni verticali – anti-coloniali, di genere, di classe – è sacrificata a logiche orizzontali che contrappongono imperialismi ad altri imperialismi (quando ad andarci di mezzo sono gli altri). L’esaltazione acritica del liberismo europeo di parte dem è speculare all’idea pseudo-antagonistica che qualsiasi cosa sarebbe meglio rispetto a un’idea monolitica, e quindi ridicola, di occidente.

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