Cinema

L’anima nerissima dell’ultimo film di Pupi Avati (con il ritorno di lusso di Edwige Fenech)

di Davide Turrini

Negli ultimi anni il cinema di Pupi Avati si sta rarefacendo attorno ad una precisa essenzialità minimale senza scampo morale e senza requie per l’anima. Una specie di sofferto groviglio ossessivo drammaturgico che Avati ri-propone in maniera ostinata usando l’arma di una nostalgia mesta verso il (proprio) passato che talvolta sconfina in piccole cartoline di dettagli horror. Nel caso de La quattordicesima domenica del tempo ordinario, in sala dal 4 maggio, l’ossessione che batte di continuo dentro e fuori il narrato, tra i primi anni settanta del ricordo e in un oggi mise en abyme dell’eterno ieri, è quella del protagonista Marzio (Lodo Guenzi da giovane, Gabriele Lavia da vecchio): da un lato il rimpianto mai sopito per un’idea di successo nel mondo musicale con il duo I Leggenda che avrebbe necessitato di entusiasmo ed energia che l’amico Samuele (Nick Rosso, recitazione classica ma bella sorpresa) intento a fare carriera in banca non profuse all’epoca; dall’altro la profonda irrefrenabile gelosia, anch’essa mai sopita, verso la bella, inseguita e conquistata Sandra (Camilla Ciraolo da giovane, Edwige Fenech da anziana) divenuta moglie, poi ex moglie, e infine riaccesa fiamma in terza età.

Ecco, pur essendo la doppia dimensione spaziotemporale mescolata continuamente tra presente e passato (minutaggio forse leggermente più a favore degli anni settanta), Avati (allo script senza il fratello Antonio, qui solo produttore) pone l’ossessività di Marzio (il rimpianto e la gelosia) in maniera atemporale, tetragona, imperturbabile come se il protagonista vivesse un eterno loop di segno negativo screziato di continue ubriacature, incazzature e scazzottate che non possono lenire o cancellare nulla. L’anima nerissima de La quattordicesima domenica del tempo ordinario è tutta in questo assillante frame che si ripete senza sosta. Due esempi: il brano musicale, sempre quello, sempre lo stesso, sempre così terribilmente perdente (anche se amato e curato dal suo creatore) che viene suonato ovunque come se Marzio non avesse “repertorio” o il momento in cui addirittura l’immagine di Marzio si divide in uno split screen di tre parti nel terrificante programma di una tv privata di oggi. Infine dicevamo delle cartoline orrorifiche. Al di là dell’effettistica digitale di grana un po’ grossa, la carrellata ellittica dei visi di bimbe davanti al chiosco d’epoca di gelati dove Marzio incontrò per la prima volta Sandra (e meno male che non c’è sempre Roma come madeleine geografica sentimentale ma Bologna) sembra più il precipitato significante di un sinistro incubo persistente che di un piacevole ricordo che svapora, ossessione e urgenza espressiva avatiana tout court ribollente fin dai tempi dei suoi horror padani anni settanta. Ritorno di lusso della Fenech al cinema dopo 20 anni con tanto di citazione delle commedie sexy con la scena della doccia… che però non funziona.

L’anima nerissima dell’ultimo film di Pupi Avati (con il ritorno di lusso di Edwige Fenech)
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