Niente è difficile come strapparsi via le etichette che ti sono state cucite addosso per una vita intera. Perché a forza di sentirsi ripetere sempre le stesse cose, si corre il rischio di convincersi che siano vere. Ne sa qualcosa Luciano Spalletti, l’uomo partito da Certaldo che per quasi vent’anni ha dovuto fare i conti con un nomignolo sgradevole. Quello di eterno secondo o, ribaltando il concetto, di primo degli sconfitti. Le sue squadre riempivano gli occhi ma non le bacheche. Un peccato imperdonabile in un calcio dove il concetto di vittoria è stato sovrascritto da quello di accumulo di trofei. Wile E. Coyote all’inseguimento perenne del suo Beep Beep, Spalletti sembrava condannato a farsi sempre scivolare lo scudetto dalle mani. Ancora e ancora e ancora. Fino a quando quella capacità di portare le sue squadre al secondo posto non è diventata barzelletta, limite invalicabile. È stato così fino a oggi.

Perché il tricolore vinto con il Napoli è molto più di un capolavoro. È una lente che costringe a guardare nuovamente il passato con una consapevolezza diversa, a porre l’accento su cosa è stato e non più su quello che avrebbe potuto essere. Luciano non è più l’uomo che preparava il terreno per il raccolto altrui, quello che faceva migliorare esponenzialmente i giocatori che poi andavano ad alzare i trofei altrove. Ora l’allenatore che non sapeva vincere ha imparato a dominare. Grazie a un campionato passato in testa dall’inizio alla fine, Spalletti è diventato condottiero, leader maximo di una periferia calcistica che da 33 anni provava a tornare centro, demiurgo di una squadra che ha ostentato un gioco dalla bellezza abbacinante. Sembra una conquista tutta nuova, ma non è nient’altro che il filo conduttore di tutta la sua carriera.

Per quasi due decenni, infatti, Spalletti è stato raccontato più attraverso le sue stravaganze, soprattutto verbali, che per i suoi meriti concreti. Ecco allora che al centro della narrazione non è finito il gioco delle sue squadre, ma i video con la paperella Biancaneve che faceva colazione con i biscotti o con le galline del Cioni. Le sue conferenze stampa si sono trasformate in tormentoni. Da “il tacco, la punta, il numero, il titolo, il gol” fino al “siccome probabilmente tu sei un perdente”, passando per le testate contro la scrivania mentre il giornalista di turno continuava a parlare. Il risultato è stato ingiusto. Perché il personaggio ha preso il posto della persona, ma soprattutto del tecnico. Le sue sbroccate con gli inviati sono diventate un filone letterario. Tanto che per qualche tempo Spalletti sembrava essere diventato quel compagno di classe irascibile che tutti si divertivano a stuzzicare per poi godere della sua reazione scomposta. E così facendo, ci si è convinti che il contrasto fosse la vera cifra del suo lavoro. Spalletti veniva raccontato come l’uomo delle tempeste, come un tipo irascibile capace di andare su tutte le furie per una fesseria.

Fino a quando la sua carriera non sembrava poter essere racchiusa in quel verso de L’uomo è forte di Corrado Alvaro: “La vita non è nient’altro che un rasentarsi di solitudini”. I dissidi con Totti, arrivato al tramonto della sua carriera, e con Icardi, ormai inviso allo spogliatoio interista, hanno fatto il resto. E in situazioni che avrebbero fagocitato chiunque, Spalletti ha mantenuto sempre dritto il timone della sua coerenza, riuscendo anche a centrare gli obiettivi stagionali. Per anni si è parlato di Spalletti più facendo riferimento a cosa è mancato che a quello che ha conquistato. Un paradosso per un tecnico che non solo ha spesso centrato i suoi obiettivi, ma lo ha fatto anche con squadre che si sono rivelate meravigliose sorprese (come l’Udinese) o dal tasso tecnico inferiore al proprio blasone. I tre secondi posti conquistati con la Roma fra il 2005 e il 2008 sono arrivati contro un’Inter infinitamente superiore, con una rose sterminata e che ogni anno acquistava i giocatori più forti delle rivali. Difficile fare di più. E invece Spalletti è riuscito a soffiare titoli ai nerazzurri (due Coppe Italia e una Supercoppa), ma anche ad arrivare a 45 minuti dallo scudetto. Lo stesso discorso vale per l’Inter, dove il tecnico ha centrato due quarti posti fondamentali per la ricostruzione nerazzurra. E lo ha fatto senza gli investimenti massicci (Lukaku, Barella e Hakimi su tutti) che hanno permesso subito dopo a Conte di vincere lo scudetto.

Imprese in miniatura che non stravolgono un palmares ma che valgono quanto medaglie da appuntarsi sul petto. Così come le intuizioni che hanno stravolto le carriera dei suoi giocatori. Totti centravanti, Perrotta e poi Nainggolan trequartisti, Brozovic regista. E poi ancora la difesa a tre e mezzo, lo sgrezzamento di talenti come Emerson Palmieri, Rüdiger e Salah. Quella che sta per concludersi sembrava l’ennesima annata da calimero per un allenatore condannato a dover ricostruire senza mai poter costruire. Via Koulibaly. Via Insigne. Via Mertens. Via Fabian Ruiz. Al loro posto era arrivata tutta gente di belle speranze come Raspadori, Kim, Simeone, Kvaratskhelia. Quella che sembrava essere una rivoluzione aveva assunto quasi subito i contorni del ridimensionamento. Ma solo per gli addetti ai lavori. Luciano da Certaldo ha mostrato ancora una volta che i nomi sono importanti, ma non sono tutto. Il rendimento dei nuovi acquisti è andato al di là di ogni aspettativa. Così come quello dei vari Lobotka, Mario Rui, Juan Jesus e Rrahmani. Il Napoli si è preso la testa della classifica e non l’ha più lasciata. Merito soprattutto del suo allenatore. D’altra parte Spalletti lo aveva detto qualche tempo fa: “Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli”. Una frase che era diventata aforisma e che oggi è diventata verità. Perché alla fine Wile E. Coyote ha catturato il suo Beep Beep. E anche in grande stile.

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