Assolto “per non aver commesso il fatto”. Si è chiuso così il processo di primo grado al governatore della Puglia Michele Emiliano, imputato a Torino per finanziamento illecito in concorso con il deputato del Partito Democratico e suo braccio destro Claudio Stefanazzi. Per l’onorevole il verdetto è stato diverso: a lui e all’imprenditore Vito Ladisa la giudice Alessandra Salvadori ha irrogato 4 mesi e 20mila euro di multa. Accolta solo in parte, perciò, la richiesta del pm Giovanni Caspani, che aveva chiesto di condannare i due politici a 1 anno e 90mila euro di multa. Per i due imprenditori considerati i “datori” del finanziamento illecito, Giacomo Mescia e Vito Ladisa, la procura aveva chiesto 8 mesi di reclusione più multe rispettivamente da 30mila e 60mila euro. Come Emiliano, anche Mescia è stato assolto.
L’inchiesta e il processo ruotano attorno a due fatture per complessivi 65mila euro pagate alla Eggers di Pietro Dotti, la società di comunicazione incaricata di curare la corsa di Emiliano alla segreteria dem contro Matteo Renzi. A saldare il debito in due tranche, una a testa, furono gli imprenditori Giacomo Mescia e Vito Ladisa, già finanziatori di Emiliano in precedenti campagne elettorali e co-imputati nel processo di Torino. Secondo la tesi della procura, quei versamenti integravano un finanziamento occulto in quanto i compensi sarebbero stati fatturati come corrispettivo per servizi erogati a favore della Margherita srl e della Ladisa ristorazione srl, senza alcun riferimento alla campagna di Emiliano. Secondo la ricostruzione del pm, il capo della Eggers avrebbe tolto quelle informazioni dal documento fiscale proprio su indicazione di Stefanazzi.
Emiliano non era presente in aula e non è stato interrogato nel corso dell’istruttoria, ma a fine marzo ha reso dichiarazioni spontanee. In quell’occasione ha rievocato i mesi in cui il titolare della Eggers si era rivolto ai giudici per essere pagato e aveva diffuso la notizia ai giornali. “Ero talmente seccato dalle pressioni di stampa che dissi: ‘se avete i soldi pagate, se non li avete ve li do io e mettiamo a tacere questa cosa’. Dotti poi mi mandò un messaggio con scritto ‘hanno sistemato tutto’ e io non ho fatto ulteriori domande”, ha riferito. “Siamo in presenza di un pagamento effettuato per interposta persona. Dalla lettura delle fatture non si capisce che Mescia e Ladisa pagano la campagna elettorale di Emiliano. Le fatture lasciano capire che pagano per servizi erogati nei loro confronti. In questa maniera diventa un finanziamento occulto”, ha dichiarato il pm nella sua ricostruzione. Secondo questa tesi, poi, l’entourage del governatore avrebbe interloquito personalmente con i tre imprenditori tagliando fuori l’associazione Piazze d’Italia, il collettore dei finanziamenti per la corsa alle primarie di Emiliano, che all’epoca “deteneva un ruolo di indirizzo politico”.
Al contrario, per la difesa dei due politici l’associazione era al corrente del finanziamento, che sarebbe stato regolarmente documentato. “Parliamo di una persona che fa il magistrato da 24 anni, che non ha nemmeno una casa di proprietà e investe tutti i suoi averi in attività politica – ha replicato l’avvocato Gaetano Sassanelli, che difende Emiliano –. Non aveva nessun interesse a pattuire con gli imprenditori un finanziamento illecito. Non c’è nessuna prova che Emiliano fosse consapevole di cosa è accaduto poi tra Mescia, Ladisa e Dotti perché ha interrotto i rapporti prima”. Per la difesa dei due imprenditori i versamenti non possono essere rubricati come finanziamento illecito ai partiti, perché al tempo dei fatti Emiliano non era nemmeno più iscritto al Pd, dopo esserne stato segretario regionale fino al 21 maggio 2016. Una tesi accolta solo in parte dalla giudice, per le cui motivazioni bisognerà attendere il deposito della sentenza.
“La sentenza di oggi è la pietra tombale sulle fandonie a carico del presidente Emiliano che finalmente stacca la corrente al circuito del fango nel ventilatore, così tanto utilizzato a suo danno in questi lunghi 5 anni. Ma, naturalmente, com’è d’obbligo in Italia, nessuno risponderà di questi anni di informazione avvelenata, nonostante si siano rivoltati come un calzino la vita, i rapporti, gli affetti e l’intera esistenza del Presidente. Sono stati utilizzati gli strumenti investigativi più invasivi a disposizione della polizia giudiziaria – ha commentato l’avvocato – perché forse qualcuno con il suo esposto anonimo ha cercato di guidare dall’esterno l’indagine, pensando così di sferrare un attacco finale e definitivo. Ma non aveva fatto i conti con la verità che, con la sua tenacia, alla fine ha avuto la meglio, dimostrando che la realtà era ben diversa. Qualcuno evidentemente pensava che lo squallido ed incostituzionale strumento dell’anonimo potesse essere uno strumento con cui scardinarne l’immagine. Non ci dimentichiamo infatti che questa indagine è partita da una ipotesi di corruzione, senza neanche l’individuazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio che costituisce un elemento costitutivo di quel reato, lasciando il retrogusto di un utilizzo della giustizia penale come strumento per raggiungere un determinato risultato, con la conseguenza che nell’opinione pubblica si era radicata una convinzione di colpevolezza in totale rotta di collisione con la verità, dopo molti anni accertata anche processualmente. Si spera che ora, finalmente, dando il giusto peso ai maleodoranti anonimi, si torni invece alla logica del processo come attività necessaria per accertare fatti esistenti ed almeno astrattamente riconducibili ad un precetto penale. Ma partendo sempre da un fatto e mai più da congetture prive di sostanza!