Per il mio gusto, la birra perfetta resta di sottofondo al tempo che batte fuori dal bicchiere: è quella che accompagna alla perfezione, senza inutili acuti, il piatto cucinato per mia moglie, che scende senza che te ne accorgi nelle ore fluide di una serata con gli amici, che disseta mentre ritrovi la tranquillità delle sette di sera dopo una giornata intensa di lavoro.

Certo, sono un appassionato bevitore onnivoro: ai festival birrai o quando visito una tap room provo di tutto. Però, complice una parentesi di vita passata oltre Manica, le mie preferenze rimangono ancorate agli stili della tradizione britannica (Mild e Bitter su tutti), e più in generale a una categoria che la lingua inglese definisce “session” e che da noi potremmo tradurre con “seriale”. Le birre session sono quelle che appunto bevi in serie, che compongono una vera e propria sessione di bevute al pub, che scegli apposta perché siano da accompagnamento alla serata e non protagoniste. Sono quindi per natura moderate nel bagaglio alcoolico ma non per questo scariche nel gusto.

Non faccio fatica a inserire in questo gruppo numerosi stili tipici della Germania che per gradi, facilità di beva, equilibrio tra malto e luppoli si prestano a bevute continue, magari nella cornice unica di un Biergarten.

Non ho esitato quindi a scendere a Roma, un paio di settimane fa, in occasione del Frankenbier Fest, l’evento che celebra negli spazi della Limonaia di Villa Torlonia la tradizione birraria della Franconia, regione a nord della Baviera e gemma della produzione artigianale tedesca. Sotto l’attenta guida di Manuele Colonna, esperto indiscusso e autore di “Birra in Franconia”, oltre che publican del “Ma che siete venuti a fa’” che assieme a Publigiovane organizza il festival, è stato selezionato il meglio della regione in un tripudio di Keller, Rauch, Dunkel e mille altre espressioni di una scuola fedele alle antiche abitudini di cottura e maturazione.

Mentre bevevo con impressionante semplicità birre ben fatte, con l’impercettibile graffio che può lasciare nel bicchiere la mano sicura ma non guantata di mastri birrai ancorati alle loro realtà locali, ho avuto occasione di scambiare due chiacchiere con Colonna. Mi ha parlato con passione della bellezza di queste “birre contadine, prodotte su impianti a volte ancestrali, alcune con vasche di fermentazione aperte”, che possono contenere nel bicchiere le tipiche, volatili “puzzette” (suggestioni sulfuree, afflati di diacetile, nuvole evanescenti di mais bollito o mela verde), firma autentica di una manifattura rurale. Si è soffermato inoltre sul connubio indissolubile che lega nel boccale villaggi, birrifici familiari e birra, e sulla sensazione che si prova, visitando quei luoghi, di “entrare direttamente nella comunità locale”.

Avendo intravisto in sala diversi birrai nostrani, ne ho approfittato per chiedere loro cosa vuole oggi il consumatore italiano, ben sapendo che dal suo bancone Colonna ha il polso esatto della situazione: “Col passare del tempo è esaurita la fase nella quale si bevevano cose complesse che hanno certamente aiutato il mondo della birra artigianale verso un’apertura più complessa del palato ma hanno in parte inficiato la bevibilità”. I produttori nazionali hanno dimostrato come “si può giocare sull’ampiezza gustativa, realizzando una birra facile da bere ma con personalità”; il risultato, conclude Manuele, è un innegabile vantaggio per il settore: “La birra è tornata a essere bevuta e non sorseggiata o snasata”.

Ecco ricomparire il concetto di serialità delle tradizioni inglesi e tedesche; se consultiamo però i numeri contenuti nei report di “Assobirra” la realtà italiana, da sempre bloccata in termini quantitativi, sembra ancora stazionaria. Il livello di consumo di litri annuo pro capite è sempre lo stesso con un lieve sussulto nel 2021 (35,2 litri) rispetto al 2020 ma comunque in linea con gli anni precedenti e in ogni modo altamente al di sotto delle medie europee (135 litri a persona in Repubblica Ceca, 93 in Germania, 46 in un paese simile al nostro come il Portogallo).

Forse lo stimolo a una crescita ancora più sostenuta del settore, dell’occupazione e della cultura che la birra si trascina con sé può venire proprio da quel legame tra territorio e consumo, in un patto di appartenenza che ha radici salde nella terra e nelle eccellenze agroalimentari locali e che ha fatto la fortuna della birra francone. Certamente le pinte made in Italy che da anni raccolgono consensi e successi in tutta Europa beneficerebbero di una sforbiciata alla farraginosità del comparto (meno burocrazia, meno imposte, meno lacci). Ma, e concludo citando nuovamente Manuele Colonna, publican che ama visceralmente la birra, “la responsabilità è anche dei pub e degli operatori” che non devono mai smettere di studiare e fuggire le sirene delle mode mercificate, proponendo sempre il meglio contro certe estremizzazioni richieste a gran voce dai clienti.

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