Il decreto lavoro del Primo maggio è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale e si è portato dietro le peggiori conferme di quanto era circolato nelle bozze. Tra queste, l’articolo 26, una norma che cerca di rendere praticamente impossibile per i lavoratori e i sindacati stessi conoscere il funzionamento degli algoritmi che sulle piattaforme assegnano e valutano il “lavoretto” dei rider o di altri lavoratori della gig economy determinandone frequenza d’impiego e guadagni e basandosi solitamente sulla performance. L’ex ministro del lavoro, il dem Andrea Orlando, è stato il primo a dare l’allarme su una norma che mina “il diritto alla trasparenza sull’uso degli algoritmi nei posti di lavoro”. L’accusa era in un tweet: “Questo governo non sa guardare al lavoro che cambia e si schiera dalla parte delle grandi piattaforme”. Secondo i giuristi consultati dal Fatto il tentativo di assist alle piattaforme potrebbe però rivelarsi un flop.

L’articolo in questione è il 26 e prevede che il datore di lavoro o il committente sia sì “tenuto a informare il lavoratore dell’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio” ma solo se “integralmente automatizzati” per “fini della assunzione o del conferimento dell’incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell’assegnazione di compiti o mansioni nonché la valutazione, le prestazioni”. Poi inserisce un’altra eccezione. Si prevede infatti che questi “obblighi non si applichino ai sistemi protetti da segreto industriale e commerciale”. E nel mondo delle piattaforme poche cose sono considerate più segrete del funzionamento degli algoritmi. “In questo modo crolla completamente l’impianto che avevamo costruito finora”, ha spiegato al Fatto l’ex ministro.

Gli obblighi del decreto trasparenza – Di fatto, con il Decreto trasparenza approvato la scorsa estate e sulla base delle norme Ue, sia i lavoratori che i sindacati potevano richiedere l’accesso al funzionamento degli algoritmi per capire come funzionino e assegnino il lavoro, mentre stava alle piattaforme dimostrarne inaccessibilità e relative motivazioni: “Così invece è un liberi tutti che potrebbe avere una portata maggiore se in futuro si dovessero gestire in questo modo anche altre forme di lavoro subordinato”, aggiunge Orlando. “È una norma intollerabile, pericolosa, che ci fa tornare indietro anche rispetto alle sentenze sulla trasparenza algoritmica che abbiamo vinto – ha spiegato la Cgil nazionale – In un tempo in cui è sempre più diffuso l’utilizzo di sistemi algoritmici e l’Europa stessa si muove per rendere la trasparenza l’elemento cardine del loro utilizzo, il Governo decide di fare un passo indietro garantendo i datori di lavoro, accettando di non contrastare l’opacità dell’algoritmo e privando lavoratori e loro rappresentanze di uno strumento essenziale per esercitare diritti”.

La condanna di Uber Eats – A fine marzo, ad esempio, Uber Eats è stata condannata per non avere voluto informare la Cgil sui criteri con cui, attraverso il sistema di funzionamento dell’algoritmo, vengono organizzati gli incarichi ai lavoratori. Il giudice del lavoro Santina Bruno ha condannato l’app a comunicare alle organizzazioni sindacali “le informazioni sull’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati” e ha riconosciuto la “natura antisindacale” del diniego di Uber di fornire indicazioni. Una causa simile è stata presentata in questi giorni, sempre dai sindacati di trasporto, commercio e atipici della Cgil dell’Aquila, questa volta contro Glovo, sempre per spingere l’app a rendere chiari e trasparenti i meccanismi di assegnazione del lavoro.

L’assist nel decreto Lavoro – Ora però la norma contenuta nel decreto Lavoro fornirà un assist alle multinazionali del food delivery, garantendo il segreto industriale. “Si tratta di un vestito su misura che ricalca al millimetro le difese delle società dei rider nelle cause che sono in piedi – spiega l’avvocato Carlo De Marchis che con Giorgia Lo Monaco e Sergio Vacirca promuove diversi procedimenti contro le piattaforme – le quali spesso e volentieri si difendono dicendo che le norme sulla trasparenza a loro non si applicano perché i loro sistemi non sono integralmente automatizzati e perché c’è segreto industriale”.

Nell’ordinanza contro Uber Eats, il giudice cita proprio il decreto 104 trasparenza del 24 giugno 2022, che applica la direttiva europea sulle condizioni di lavoro eque, trasparenti e prevedibili e che impone ‘al datore di lavoro di informare il lavoratore dell’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati, deputati a fornire indicazioni rilevanti ai fini dell’assegnazione di compiti o mansioni…’.

Il giurista: “Non modifica la portata della norma” – Manca il termine “integralmente” che, nell’ottica del governo, dovrebbe favorire le piattaforme. Ma non è proprio così. “Ad esempio, il fatto che il comma 2 intenda semplificare gli obblighi di trasparenza sull’impiego di sistemi decisionali e di monitoraggio dei lavoratori precisando che si applicano solo a quelli ‘integralmente’ automatizzati non modifica affatto la portata pratica che la norma aveva anche prima della modifica”, spiega Alessandro del Ninno, avvocato e docente di Informatica Giuridica e di Intelligenza Artificiale, Machine Learning e Diritto all’Università LUISS Guido Carli di Roma ed esperto del Comitato europeo per la protezione dei dati personali.

Già una circolare esplicativa del Ministero del Lavoro (la n. 19 del 20 Settembre 2022) specificava infatti che “nella sostanza, il decreto legislativo richiede che il datore di lavoro proceda all’informativa quando la disciplina della vita lavorativa del dipendente, o suoi particolari aspetti rilevanti, siano interamente rimessi all’attività decisionale di sistemi automatizzati’”. L’elenco include chatbots, profilazione automatizzata dei lavoratori, utilizzo di software per il riconoscimento emotivo e test psicoattitudinali, strumenti di data analytics o machine learning, rete neurali, deep-learning.

Il Gdpr prevale sul decreto – Come non bastasse, l’impiego di strumenti decisionali o di monitoraggio interamente automatizzati deve coordinarsi con il divieto di trattamento – sempre completamente automatizzato – dei dati personali (inclusa la profilazione degli interessati, non solo i lavoratori) che è contenuto nell’articolo 22 del Regolamento Ue sui dati personali (n. 679/2019), ovvero l’ormai noto Gdpr. Il divieto è derogabile solo in tre casi particolari: se cioè il trattamento completamente automatizzato è previsto da un contratto o dalla legge o si fonda sul consenso dell’interessato. “Tuttavia, il lavoratore – precisa Del Ninno – non può prestare un consenso valido al trattamento dei suoi dati poiché è un soggetto debole o vulnerabile (per lo squilibrio del rapporto con il datore di lavoro). Né un contratto individuale di lavoro può ‘obbligare’ il lavoratore ad accettare l’impiego di sistemi interamente automatizzati che trattano i suoi dati per scopi decisionali o di monitoraggio”. Su tutto, vigono sempre insomma le tutele del Gdpr “che tra l’altro è una fonte di rango normativo sovraordinato ai decreti, che come norme ordinarie non possono violare o derogare il Gdpr” continua Del Ninno.

Difficile escludere in toto gli obblighi informativi – E il segreto industriale? “Senza norme interpretative – che magari successive circolari forniranno – , le informazioni da rendere al lavoratore potranno non includere aspetti specifici idonei a rivelare profili di know-how o di IP dei sistemi, ai sensi del Codice della Proprietà Industriale. Tuttavia, ammettere una lettura della norma – la cui portata appare generica e ambigua – che escluda in toto gli obblighi informativi solo per il rischio di violare l’IP appare esorbitante. E d’altra parte, i sistemi automatizzati avranno sempre una proprietà industriale da proteggere, non potendo divenire il richiamo alla protezione del segreto una sorta di alibi generale che depotenzia le garanzie di trasparenza per i lavoratori”.

Nel caso del cosiddetto lavoro algoritmico che interessa le grandi piattaforme (e su cui la Ue ha presentato una specifica proposta di direttiva il 9 dicembre 2021), il riferimento alla tutela del segreto industriale e commerciale richiama la protezione degli algoritmi proprietari, che le piattaforme potrebbero decidere di non rivelare, respingendo le richieste di accesso. “Ma anche in tali casi – spiega Del Ninno – soccorre la normativa data protection e le norme specifiche sul diritto di accesso ai propri dati”. Il Gdpr precisa che se è vero che il diritto di accesso ‘non dovrebbe ledere i diritti e le libertà altrui, compreso il segreto industriale e aziendale e la proprietà intellettuale’ tuttavia, “tali considerazioni non dovrebbero condurre a un diniego a fornire all’interessato tutte le informazioni” “E inoltre – conclude Del Ninno – la proposta di Regolamento generale UE sull’Intelligenza Artificiale in corso di approvazione fa della trasparenza algoritmica uno dei pilastri fondamentali proprio per evitare discriminazioni”. Anche su questa base, nel 2021 l’Autorità garante per la protezione dei dati personali ha multato Deliveroo Italy per aver trattato in modo illecito i dati personali di circa 8.000 rider (2,5 milioni di euro).

Il peso degli algoritmi sul lavoro tramite piattaforma – “Non ci interessa la stringa informatica, il segreto tecnico – spiega De Marchis – bensì la logica, il dataset, i parametri e il peso nello scegliere il rider che fa la consegna, che è l’elemento più opaco. Perché se ne sceglie uno e non un altro?” La difesa delle piattaforme è che di solito ci si basi sul ‘più vicino’. Ma spesso i rider sono tutti nella stessa zona. “Allora viene fuori che c’è anche il criterio della velocità – continua De Marchis – e quelli che definiscono ‘altri fattori’ che garantiscono l’efficienza della consegna. Quali sono? Non si sa. E quanto pesano nella valutazione algoritmica? Non si sa. Non va bene. Potrebbero essere però discriminatori ed è fondamentale saperlo”.

Anche se ormai si sta insinuando in molti settori della nostra economia, l’utilizzo degli algoritmi è un tratto caratterizzante del lavoro su piattaforma digitale. Settore che di solito viene associato univocamente alle consegne a domicilio, sebbene vi siano molte attività che oggi vengono svolte tramite app. Secondo un’indagine Inapp, i platform worker in Italia sono 570mila e, di questi, 274mila dichiarano che il lavoro svolto tramite piattaforma è la principale fonte di reddito. Metà di chi agisce tramite app fa consegne di prodotti o cibo, gli altri svolgono attività online o fanno servizio di trasporto persone. Secondo l’osservatorio di JustEat, nel 2020 il fatturato del food delivery è arrivato a 1,5 miliardi di euro, spinto in quell’anno anche dalla pandemia.

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