“Dal quarto stadio non si torna indietro”. Con una lucidità spiazzante, Michela Murgia va dritta al punto e svela al mondo la sua malattia: carcinoma renale, non operabile, con metastasi ai polmoni, alle ossa, al cervello. “Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti”, rivela la scrittrice in una lunga intervista al Corriere della Sera. Una confessione a cuore aperto in cui non lesina dettagli e in cui la finzione letteraria – quella del suo ultimo libro, Tre ciotole – si intreccia e si sovrappone alla vita vera. Diagnosi compresa.
MICHELA MURGIA E LA SCOPERTA DELLA MALATTIA – La prima volta che Michela Murgia scoprì di avere un tumore, a un polmone, era il 2014 durante la campagna elettorale in cui era candidata presidente della sua regione, la Sardegna. Lo scoprì a causa di una forte tosse: “Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale. Non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove”. Questa volta le cose sono andate diversamente, se n’è accorta perché respirava a fatica: “Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone. Stavolta il cancro era partito dal rene. Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli”.
LA CONFESSIONE A CUORE APERTO DELLA SCRITTRICE – La scrittrice non usa perifrasi e quando Aldo Cazzullo le chiede se può operarsi, lei risponde che non avrebbe senso: “Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello”. Per questo si sta curando con l’immunoterapia a base di biofarmaci, che non attacca la malattia ma stimola la risposta del sistema immunitario. “L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti”. Poi aggiunge: “Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno”. E quando le chiede se ha paura della morte, risponde con una frase spiazzante: “Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi”.
PERCHÉ HA DECISO DI SPOSARSI – “Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family”, dice ancora la scrittrice, che ha compiuto 50 anni nel giugno scorso e dalla diagnosi ad oggi dice di aver “avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo”. Un percorso che include anche il matrimonio: “Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono”. E aggiunge di aver acquistato una casa per la sua “queer family”, un nucleo familiare atipico, “in cui le relazioni contano più dei ruoli”: “Dieci posti letto, dove stare tutti insieme; mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata. Ho fatto tutto quello che volevo”. Infine, l’ultima domanda, su come le piacerebbe essere ricordata, che include una risposta politica (e fieramente anti-Meloniana): “Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista”.