Sembrerebbe facile. Consentire agli italiani che, per motivi di studio o lavoro, non vivono nella loro città di residenza di votare alle elezioni senza esser costretti ad affrontare, anche dal punto di vista economico, un lungo viaggio per tornare a casa. Come avviene in quasi tutti i paesi d’Europa (tranne Malta e Cipro). E invece no, è complicatissimo. Per due motivi: la resistenza feroce della macchina amministrativa e la mancanza di volontà politica del centrodestra. Un cocktail micidiale che sta mettendo il bastone tra le ruote alle diverse proposte di legge ora all’esame della commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Un paio di settimane fa, in audizione, Claudio Sgaraglia, capo del dipartimento affari interni del Viminale, ha smontato le proposte sul tavolo, facendo capire che sarebbe meglio lasciare tutto com’è. Per il Viminale la procedura per cambiare sistema di voto, anche solo in parte, è troppo complicata. E dire che a marzo sembrava fatta, con tanto di manifestazione organizzata da The Good Lobby (che ha raccolto firme con la petizione Io voto fuorisede) a piazza Santi Apostoli, coi rappresentanti di diverse forze politiche. Ma alla prova dei fatti, M5S e centrosinistra sono a favore, Fdi, Lega e Forza Italia frenano.
Ora, dopo la bocciatura del Viminale e il voto negativo in commissione all’abbinamento di due proposte, quella di Marianna Madia (Pd) e Vittoria Baldino (5 Stelle), il relatore leghista Igor Iezzi ha adottato come testo base la proposta Madia, facendo però capire che non c’è fretta. “La maggioranza ha lasciato intendere che, se fosse per loro, questo testo non vedrà mai la luce”, raccontano dal Pd.
Il testo di Madia, così come quello di Baldino, prevede il voto anticipato: qualche giorno prima delle elezioni il cittadino fuori sede, col certificato elettorale, può votare in un seggio presidiato all’interno di un ufficio postale nel luogo di domicilio. Poi la scheda viene sigillata e spedita al comune di residenza dove verrà mescolata alle altre della propria sezione. Un’altra proposta in campo, a firma Riccardo Magi (+ Europa), prevede che l’elettore fuori sede possa votare nel luogo dove vive, candidati e liste di quel collegio. Idee, tra l’altro, frutto del lungo lavoro della commissione sull’astensionismo dell’ex ministro dei Rapporti col Parlamento Federico D’Incà nella passata legislatura, che, anche con il contributo dell’ex ministro Franco Bassanini, ha prodotto un “libro bianco sull’astensionismo” dove vengono formulate proposte per limitare la tendenza, come appunto il voto ai fuori sede. Tutte ipotesi di scuola che però poi si scontrano, nella realtà, con un muro di gomma. Ma di voto ai fuori sede si parla da oltre una decina d’anni, con le prime proposte avanzate addirittura nel 2010, all’epoca dell’ultimo governo Berlusconi.
Il Viminale, con un intervento della sottosegretaria meloniana Wanda Ferro, ha smontato entrambe le ipotesi sopra citate (Madia e Magi): la prima violerebbe il principio di territorialità del voto, la seconda altererebbe il bacino elettorale incidendo sulla formazione dei collegi. “Sono tutte obiezioni tecniche, quindi superabili, in nome del principio del diritto democratico al voto”, osserva Magi. Che sottolinea la contraddizione nel non consentire di votare a nostri connazionali all’interno del Paese quando poi “si permette il voto all’estero a persone che nemmeno parlano italiano con schede che vengono spedite per posta da un capo all’altro del globo con poche misure di sicurezza”. All’attacco vanno anche i 5 Stelle. “Siamo di fronte a un atteggiamento surreale che colloca il governo Meloni fuori dalla realtà. L’astensione è già molto alta, perché darle una mano?” si chiede la vice capogruppo Vittoria Baldino.
Secondo Istat, la platea dei fuori sede in Italia è di quasi 5 milioni di persone, il 10% dell’elettorato attivo. Di questi la quasi totalità non vota anche per non doversi sobbarcare le spese di un viaggio. “Col voto nel proprio domicilio si recupererebbero tra i 2 milioni e mezzo e i 3 milioni di elettori. Attenzione: elettori che votano a sinistra, al centro e a destra. Nessuno avrebbe particolari benefici o vantaggi”, fa notare il sondaggista Antonio Noto. Resta incomprensibile, quindi, perché a destra pensano di averne un danno. “Votare da lontano aiuterebbe a combattere l’astensione, ma non risolverebbe il problema di disaffezione dalla politica. Ne farei più una questione di diritto costituzionale al voto”, osserva Massimo Pessato di Swg. Sul testo Madia sono arrivati una decina di emendamenti e la questione è slittata ai primi giorni di maggio. Ma senza la volontà politica della maggioranza (o di un’altra maggioranza trasversale che al momento non c’è), sarà difficile raggiungere l’obbiettivo.