di Matteo Bortolon

In piena crisi Covid nel 2020 la Ue ha raggiunto uno dei punti più bassi della propria storia: la sonnolenta verbosità delle istituzioni comunitarie contrastava con l’attivismo degli Stati nazionali – a cui evidentemente non sono state spiegate le teorie europeiste sul fatto che fossero decrepite anticaglie del passato.

In quella fase si sono susseguiti alcuni incontri fra i vertici europei ed i governi nazionali che hanno partorito il Next Generation EU, per alcuni il miracoloso scatto in avanti che avrebbe fatto avanzare la Ue verso la sospirata unione politica.
Ora apprendiamo che i fondi europei potranno essere destinati per la produzione di munizioni da guerra; la mitologia del Pnrr – il corposo documento che l’Esecutivo ha scritto per ottenere i soldi – parlava di transizione green, digitalizzazione e resilienza. Pochi avrebbero potuto immaginare che nell’ultimo termine venisse inclusa, con una capriola concettuale, la resistenza di carattere militare.

Ciò non significa che una parte consistente dei fondi andrà verso il comparto militare (o che qualcuno sceglierà di farlo, se è per questo; ancora non lo sappiamo). Ma è un segno rilevante che ci parla di quel non detto sulla sua reale natura. Il Next Generation EU, originariamente considerato funzionale alla ripresa economica dopo la crisi Covid, intendeva trasformare una crisi in opportunità: fare avanzare la solidarietà fra paesi europei, ridare vigore alle loro economie e al tempo stesso renderli più conformi alla transizione ecologica e alla digitalizzazione (curiosamente considerate convergenti).

Inutile dire che la lunghezza delle tempistiche (consegna Pnrr ad aprile 2021, primo prefinanziamento a metà anno e prima rata a fine 2021) ha completamente vanificato tale obiettivo originario – la ripresa del 2021 se l’è cavata benissimo pure senza la cornucopia targata Ue; rimane l’obiettivo di plasmare l’economia del continente. Ma in che direzione?

L’architettura giuridico-istituzionale, frutto del compromesso coi cosiddetti “frugali” (i paesi del nord Europa assai recalcitranti alle forme di solidarietà espresse anche in modalità pittoresche) è farraginosa e ridondante: sette strumenti diversi per un mix di prestiti e sovvenzioni, finanziati con l’emissione di obbligazioni da parte della Commissione; proposta da parte di ciascun paese di un proprio Piano che deve specificare obiettivi e target (definiti in modo fiscale il più possibile), accettazione da parte della Ue e accordo comune; erogazione rateizzata condizionale (danno i soldi in varie tranches, verificando se abbiamo fatto “i compiti a casa”).

Chi ha familiarità con le prassi Ue ha intuito già da tempo che si tratta di una forma di vincolo esterno il quale più che ai pretenziosi standard ambientali e modernizzanti è subordinato alla volontà della Commissione. La quale non solo ha il potere pressoché arbitrario in merito alla approvazione dei Piani e allo stanziamento dei fondi – un pretesto si trova sempre – ma nel regolamento che disciplina lo strumento, il n. 241/2021 del 10 febbraio 2021 si subordina l’erogazione delle rate al rispetto delle famose raccomandazioni della Commissione. Il cui orientamento può variare ma non la capacità degli Stati più deboli di sottrarsi ad essa, dopo che gli strumenti sono stati approvati e sono entrati in vigore.

A fronte di una convenienza molto risicata per il paese – potevamo indebitarci a tassi assai bassi in modo del tutto indipendente vista la congiuntura – gli organi della Ue acquisiscono una ulteriore leva di influenza e strumenti penetranti interni. Se era già preoccupante sul piano della subordinazione di tutto agli stessi poteri – la Germania, la Bce, i mercati finanziari – che sul piano economico-finanziario hanno spietatamente conculcato gli interessi popolari a favore dei soliti equilibri dominanti, oggi che i vertici della Ue appaiono come i più ubbidienti gregari al governo Usa la cosa emerge con preoccupante evidenza. Ed è così che mentre la finalità originaria viene bellamente dimenticata, anche la prospettiva di trasformazione sociale in senso idealistico-progressista viene bruscamente messa da parte per aprirsi al militarismo fiancheggiatore degli Usa nella crociata antirussa.

Il cerchio si chiude: il processo di integrazione europeo si basava su una utopistica rimozione delle sovranità statali a vantaggio di una mera governance di mercato, ma in realtà al di là di tale narrativa le decisioni venivano condivise – se non determinate – dagli Stati più forti, in primis quello tedesco. Adesso che Washington appare come il vero decisore in materia di politica estera per l’Europa pure gli strumenti Ue si piegano a tale potere, tradendo nel modo più palese le sue (supposte) ragioni ideali: la pace e l’ecologia.

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