Iniziare un film con i titoli di testa al ralenti, in bianco e nero (come poi tutto il film), accompagnati dalla Cavalleria rusticana di Mascagni, e puntando su un’unica sequenza senza stacchi di montaggio, dove il protagonista (Robert De Niro/Jake LaMotta) saltella e tira pugni nel vuoto su un ring, e tra la macchina da presa e il soggetto ci sono pure le corde del quadrato, si chiama magnifico azzardo espressivo autoriale assoluto. Parliamo di quella manciata di fotogrammi con cui comincia Toro scatenato, in originale Raging bull, diretto da Martin Scorsese nel 1980 e di nuovo nelle sale italiane in 4K l’8, il 9 e il 10 di maggio. Non farà sfracelli, probabilmente, per la sacra ostensione delle stigmate morettiane e di tutte le galassie e videogame inimmaginabili ad occupare ogni angolo di cinema. Eppure la quarta collaborazione Scorsese-De Niro è forse quella più intensa, tragica, ieratica di quel percorso drammaturgico tipico dell’epica scorsesiana, firmata con il sodale, cattolicissimo Paul Schrader, di colpa e redenzione, di violenza cruda e realistica connaturata all’essere, di ascesa, trionfo e declino di un “bravo ragazzo” della comunità italoamericana newyorchese.
La storia è quella del pugile Jake LaMotta, campione mondiale dei pesi medi tra il 1949 e il 1951 che Scorsese rielabora in chiave febbrile, saltando immediatamente dal 1964 (LaMotta attore realmente anche ne Lo spaccone di Rossen) al 1941 sul ring di una ingiusta e clamorosa sconfitta per evidenziare il mood della corruzione mafiosa attorno agli incontri di boxe (tema articolato sottotraccia in tutto il film), ma soprattutto sottolineando la fisicità del protagonista, tra gesti violenti sia verso gli amici e la moglie, sia autodistruttivi. Toro scatenato ha un andamento lirico, di un godimento trionfale possibile ma sempre strozzato, una sorta di simbolismo antispettacolare e antihollywoodiano, pardon molto new Hollywood, che oltretutto andava ad aggiungersi, per sottrazione, all’epopea di Rocky che aveva appena sbancato Oscar e box office tra il primo titolo del 1976 e il sequel del 1979.
Se vi capita di spulciare online troverete un making off di buona fattura dove si comprenderanno molti aspetti delle intuizioni di ripresa scorsesiane sul ring: le carrellate velocissime di un paio di metri verso Jake/De Niro seduto all’angolo, l’idea della macchina da presa per i primi piani frontali di LaMotta/De Niro sul ring sostenuta da sbarre verticali attaccate a fianchi e ventre dell’attore. Dopo Toro scatenato i film sulla boxe si propagheranno oltremisura, anche se ce ne sono solo due meritevoli: dopo Alì di Mann e prima Lassù qualcuno mi ama di Wise. Scorsese affronta l’ambito sportivo come fosse un’arena tout court della vita, una propaggine ipertrofica inarrestabile dell’io. In questo la trasformazione corporea reale, a parte qualche ritocco di make up sul viso, di De Niro rimane scolpita negli annali storici della performatività radicale attoriale (vinse anche l’Oscar come miglior attore). Infine, va segnalato che Scorsese proveniva dal flop commerciale di New York, New York e che le difficoltà di produzione United Artist a gestire il coevo set sprecone de I cancelli del cielo di Cimino (che poi farà fallire la casa di produzione stessa) si ripercuoterà sulle riprese di Toro scatenato e sui rapporti con Scorsese stesso appena uscito dal tunnel della cocaina. In scena ci sono già a pieno ritmo due facce scorsesiane da sangue, botte e meraviglia come Frank Vincent e Joe Pesci.