Greenpeace Italia, ReCommon e dodici tra cittadine e cittadini italiani citano in giudizio Eni spa, ma anche ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti, che insieme controllano circa il 30% del capitale sociale dell’azienda. Si avvia così la prima causa civile italiana contro Eni per i danni subiti in passato e per quelli, che inevitabilmente arriveranno in futuro, come sostenuto dalle principali istituzioni scientifiche internazionali. Sono effetto dei cambiamenti climatici a cui, secondo le ong e questi cittadini, “Eni ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, rendendoci dipendenti dal gas russo e ora da quello proveniente da altre aree del mondo”. L’annuncio è arrivato nel corso di una conferenza stampa: le associazioni e due dei cittadini coinvolti hanno spiegato le ragioni alla base dell’azione legale, la prima del suo genere contro una società di diritto privato in Italia. “Contestiamo a Eni la violazione dell’accordo di Parigi – ha spiegato Antonio Tricarico di ReCommon – e vogliamo ricordare che, come già sancito da diversi tribunali internazionali, continuare a contribuire al riscaldamento globale genera degli impatti associati a gravi violazioni dei diritti umani. Basti guardare ciò che è accaduto con la recente alluvione in Romagna”.
L’azione legale – Si chiede che Eni sia condannata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, “come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi secondo il dettato dell’Accordo di Parigi sul clima”. E viene chiesto che il ministero dell’Economia e delle Finanze, azionista influente di Eni, “sia obbligato ad adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi”. Mentre ad oggi la conferma di Claudio Descalzi al vertice della società da parte del MEF, avallata dall’intero governo, “rende quest’ultimo – sottolineano le organizzazioni – complice di scelte che aggravano la crisi climatica”. Come ha spiegato l’avvocato Alessandro Gariglio, “quello che vediamo oggi è l’effetto di ciò che è stato fatto nel corso dei decenni. Dunque l’obiettivo è quello di evitare di ritrovarci tra vent’anni in una situazione molto peggiore”. È stata indicata come data per la prima udienza quella del 30 novembre 2023.
La resa dei conti sui danni dei cambiamenti climatici – L’iniziativa, promossa dalla campagna #LaGiustaCausa, si inserisce però tra le cosiddette climate litigation, azioni di contenzioso climatico il cui numero complessivo, a livello globale, è più che raddoppiato dal 2015. Ad oggi sono oltre duemila le cause avviate. Tra queste, l’azione legale promossa da Friends of the Earth Netherlands (Milieudefensie), insieme a Greenpeace Netherlands, altre organizzazioni e 17.379 singoli co-ricorrenti, che nel maggio 2021 ha indotto un tribunale dei Paesi Bassi a stabilire che Shell è responsabile di aver danneggiato il clima del Pianeta, imponendo alla compagnia britannica di ridurre le proprie emissioni di carbonio. La sentenza è stata appellata da Shell. In Italia si è fatto molto poco. Eppure il Mediterraneo e la Penisola sono già oggi tra le aree più esposte. “È da criminali non agire e non porsi il problema di dove siano le responsabilità di chi ci ha portati a questa situazione”, spiega Tricarico, sostenendo che sia ora “che anche i giudici italiani si esprimano su quella che probabilmente è la più grande crisi che l’umanità affronterà in questo secolo”. Per ReCommon è un atto dovuto per chiedere il conto: “Portiamo Eni in Tribunale perché la quantità delle sue emissioni di gas serra è maggiore di quella relativa a tutte le emissioni prodotte in Italia. Nel 2021 – racconta Simona Abbate, della campagna Energia e Clima di Greenpeace – l’azienda ha emesso 456 mega tonnellate di anidride carbonica, mentre quelle generate da tutte le attività presenti in Italia sono state 390”.
Le contestazioni – Le prospettive? “A fronte di extra profitti record realizzati nel 2022, per 20,4 miliardi, i vertici continuano a imporre con forza l’agenza dell’espansione del gas fossile per i prossimi decenni in Italia e nei Paesi dove opera, qualcosa di inconciliabile con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e con l’Agenda dei diritti umani”. Un dato: l’azienda prevede di raddoppiare l’import di gas naturale liquefatto dalle attuali 9 a 18 megatonnellate nel 2026. “Eni è l principale blocco di potere che oggi si oppone ad accelerare una giusta transizione fuori dal fossile in Italia – commenta Tricarico – con l’ampio e comodo consenso del settore finanziario e di alcuni degli altri settori produttivi”. Il 10 maggio si svolgerà si svolgerà la quarta assemblea a porte chiuse, scelta duramente criticata dalle associazioni che da sempre accusa l’azienda di mancanza di trasparenza e ha portato avanti una petizione a livello europeo per chiedere di impedire a Eni e altre compagnie fossili di poter sponsorizzare eventi pubblici, come il Festival di Sanremo o le partite di calcio. “Il binomio perfetto delle azioni di Eni per poter tutelare il proprio business si basa su disinformazione e greenwashing”, commenta Abbate. “L’azienda si vende come green – aggiunge – ma, secondo i dati in nostro possesso, più del 55% delle sponsorizzazioni di Eni parlano di sostenibilità e ambiente ma, contemporaneamente, l’azienda continua ad aumentare i propri investimenti in oil&gas. Plenitude è l’illusione perfetta: come per una matrioska, continui ad aprire quella successiva, sperando di trovare il comparto green, ma più della metà delle attività di Plenitude riguardano il gas e nel 2022, per ogni euro investito da Plenitude, Eni ha speso 15 euro nel settore dell’oil&gas”.
I cittadini che ci mettono la faccia – Chiederanno al Tribunale di Roma l’accertamento del danno e “della violazione dei loro diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata” non solo ReCommon e Greenpeace, ma anche 12 cittadine e cittadini provenienti da aree già colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici, come l’erosione costiera dovuta all’innalzamento del livello del mare, la siccità, la fusione dei ghiacciai. Tra questi c’è Vanni. “L’operato di Eni contribuisce ad aggravare notevolmente la crisi climatica, con conseguenze sempre peggiori per me e per il mio territorio, il Polesine. Nei pressi del Delta del Po, il mare avanzerà sempre di più nelle nostre terre, e con la risalita del cuneo salino rischiamo di trovarci a vivere in un vero e proprio deserto o di essere costretti abbandonare la nostra casa e la nostra terra”. Anche Rachele, vent’anni, ha deciso di partecipare alla causa civile. “La Regione in cui vivo, il Piemonte, subisce già oggi gli effetti di una drammatica siccità, come dimostra il bassissimo livello delle precipitazioni registrato quest’inverno e non ritengo giusto che il principale fornitore di energia italiano, di cui lo Stato tra l’altro è il maggiore azionista, possa portare avanti anno dopo anno un programma di investimenti che va contro gli obiettivi fissati dall’ultimo rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico”. L’avvocato Gariglio ha vutulo fare una precisazione: “Non si può pensare di limitare questa azione ai soggetti che risiedono in zone di prossimità di impianti o centrali o in zone ritenute, per una ragione o per l’altra, particolarmente a rischio. Le emissioni non hanno confini”.
La reazione di Eni – “Eni prende atto dell’iniziativa annunciata oggi da ReCommon e Greenpeace – si legge in un comunicato della azienda – Eni dimostrerà in Tribunale l’infondatezza dell’azione messa in campo e, per quanto necessario, la correttezza del proprio operato e della propria strategia di trasformazione e decarbonizzazione, che mette insieme e bilancia gli obiettivi imprescindibili della sostenibilità, della sicurezza energetica e della competitività del Paese. Eni si riserva a sua volta di valutare le opportune azioni legali per tutelare la propria reputazione rispetto alle ripetute azioni diffamatorie messe in campo da ReCommon, a partire dal ruolo che l’associazione ha cercato di ritagliarsi nell’ambito della vicenda giudiziaria Opl245 terminata con la totale insussistenza delle accuse e danni reputazionali alla società e alle sue persone”.