Due studentesse camminano tra gli edifici de La Sapienza, nel vialetto tra le facoltà di Statistica e Giurisprudenza. È maggio ma sembra luglio, l’aria è rovente. Un colpo di pistola, quasi sordo, attutito. Una delle due ragazze si gira per finire una frase ma non trova l’amica: Marta Russo è già caduta. In quel 9 maggio del ’97, la sua vita si infrange contro un proiettile calibro 22, dando inizio a una delle vicende giudiziarie più controverse d’Italia, per cui non sono bastate cinque sentenze a fugare ogni dubbio.
I FATTI – Marta ha 22 anni e studia “legge”. Vuol fare l’avvocato, forse il magistrato. È anche tiratrice di scherma e allenandosi con rigore diventa una promessa nel fioretto. Si alza presto Marta, alle sette e un quarto è già fuori di casa con il blocco di appunti nella borsa per andare a seguire le lezioni. Sua madre Aureliana è in pensione da poco e Tiziana, la sorella più grande, studia Architettura ma ormai è vicina alla laurea. “Questa figlia con gli esami è un carro armato”, dice spesso suo padre Donato alla moglie. Quel giorno ha due lezioni da seguire, poi tornerà a casa. La prima di Diritto Costituzionale, che inizia presto, poi a mezzogiorno quella di Storia Economica, ad “Economia e Commercio”, dieci minuti a piedi da Giurisprudenza. La sua collega Jolanda Ricci la sta aspettando sotto la fontana della Minerva, statua simbolo della loro Università. La lezione di diritto finisce alle 11. Jolanda e Marta hanno un’ora per arrivare in via del Castro Laurenziano, a 600 metri da lì. Escono sul viale interno. Hanno due strade possibili per andare ad Economia e Commercio: la prima, alla loro destra, aggira l’edificio in marmo bianco della loro facoltà. L’altra, che stanno per prendere conduce lungo una specie di tunnel, sul vialetto che delimita gli edifici di Statistica e di Giurisprudenza. Camminano, verso la loro sinistra si sente un colpo, come un tonfo. Hanno sparato. Jolanda è chinata su Marta, le tiene una mano sotto al capo mentre i suoi capelli biondi si tingono di rosso. Un loro amico, Andrea, chiama i soccorsi. Marta Russo alle 12 e un minuto entra in codice rosso nel Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I in condizioni disperate. Nessuno comprende che è stata colpita da un proiettile prima della Tac. È piccolo e nascosto, appena dietro l’orecchio sinistro. Si è frammentato in undici parti, causando danni irreversibili. Intanto, arriva una telefonata in Procura al Pm Carlo Lasperanza: “Alla Sapienza c’è stata una lite tra fidanzati, gli dicono”. L’ateneo è presidiato, tutte le uscite sono bloccate. No, non è una lite tra ragazzi. Si setacciano i cestini, la zona dello sparo è presidiata. Lasperanza comprende subito che non era Marta l’obiettivo, chi avrebbe dovuto avercela con lei al punto da ferirla a morte con un’arma da fuoco? Era solo una delle migliaia di studentesse de La Sapienza.
E Jolanda, invece? Non serve molto agli uomini della Digos per sapere che è la figlia di Renato Ricci, dirigente del Ministero di Grazia e Giustizia, ex direttore del Carcere di Rebibbia e tra i dirigenti di Alleanza Nazionale. Si occupa di acquisti per gli Istituti di pena. La pista per cui potrebbe essere stata lei il vero bersaglio non è da scartare ed è la stessa ragazza a dichiarare che a casa sua in quei giorni arrivano telefonate strane a tutte le ore del giorno e della notte. Dopo cinque giorni di attesa straziante per la famiglia, per i suoi amici e per il suo fidanzato Luca, il professor Delfino comunica ai genitori di Marta che la situazione è senza via d’uscita. Possono decidere se donare gli organi. Appena tre anni prima, la stessa Marta, era rimasta colpita dalla storia del piccolo Nicholas, colpito a morte da colpi d’arma da fuoco durante una rapina sulla Salerno-Reggio Calabria, mentre era in auto con i suoi genitori che decisero di donare i suoi organi. Disse che anche lei avrebbe voluto se le fosse accaduto qualcosa. Espresse a suo padre allora questa volontà a suo padre che sceglie senza remore di fare ciò che sua figlia avrebbe voluto, acconsente per la donazione.
LA VICENDA GIUDIZIARIA – L’omicidio di Marta Russo scatena un caso giudiziario forse senza precedenti. Invade le case delle famiglie italiane attraverso lo schermo, forse per il luogo in cui è avvenuto ma anche per l’assurdità delle circostanze. Attraverso le indagini iniziali non si arriva a nessun movente. Si parla di scambio di persona, “terrorismo” (accade nel giorno dell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro), sparo accidentale, poi il delitto perfetto per cui nel 2003, sulla base di una controversa testimonianza viene condannato in via definitiva per omicidio colposo l’assistente universitario di Filosofia del Diritto Giovanni Scattone insieme a un suo collega, Salvatore Ferraro, inizialmente per favoreggiamento. A causa dell’atteggiamento dei due pubblici ministeri, giudicato come eccessivamente inquisitorio, viene aperto anche un breve procedimento per abuso d’ufficio e violenza privata. Il delitto è definito colposo perché Scattone, dalla posizione in cui si sarebbe trovato, non avrebbe potuto esplodere un colpo preciso, mirato verso Marta. Il 15 dicembre 2003 la V Sezione Penale della Corte di cassazione, condanna Giovanni Scattone a 5 anni e quattro mesi, e Salvatore Ferraro a 4 anni e due mesi, eliminando a entrambi il reato di detenzione illegale di arma per l’impossibilità di determinarne la provenienza e riducendo le condanne severe della Corte d’Appello. Tutte le perizie vengono annullate, il verdetto si basa solo sulle testimonianze Gabriella Alletto e Maria Chiara Lipari che dichiarano di aver visto Scattone e Ferraro nell’aula da cui si presume sia partito il colpo che ha ucciso Marta Russo, al momento stesso dell’omicidio: la numero 6 della sala assistenti dell’Istituto di Filosofia del Diritto, in seguito, come viene scritto anni dopo dai giudici della Corte di Cassazione, “al rinvenimento sulla finestra destra n.4 di quell’aula di una particella composta da bario e antimonio, indicativa dello sparo”. Il proiettile, secondo la perizia, è stato esploso da quella finestra. Un’altra perizia smentisce l’esame ma intanto le indagini sono concentrate su quella pista. L’arma non è stata mai ritrovata. Particolarmente controversa la testimonianza della Alletto. La donna è segretaria amministrativa, viene interrogata come testimone ma le viene impedito di nominare subito un legale, alla stregua di un’indagata. La condotta dei pubblici ministeri è definito “gravissima” dall’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, perché quasi al limite della minaccia. La Alletto viene interrogata circa 13 volte in tre giorni. La donna subisce non lievi pressioni psicologiche. In un’audio raccolto dai cronisti di Radio Radicale, un’intercettazione ambientale, ripete: “Non sono mai entrata in quell’aula […] Io nun ce stavo là dentro, te lo giuro sulla testa dei miei figli… Non ci sono proprio entrata, ma come te lo devo dì? Fino allo sfinimento…”.
I DUBBI IRRISOLTI – Anche nel caso della Lipari, non sono pochi i dubbi irrisolti. Poco dopo lo sparo, alle 11:44 (risultano secondo i tabulati Telecom), chiama il padre e dice poi che era entrata nell’aula 6 e “la stanza era vuota”, ma dopo pressioni dichiara di ricordare altro, tirando in ballo la presenza di una donna e di un uomo, con un altro uomo che usciva salutandola. Ricordi che lei stessa definisce “subliminali”. “La premessa conclusiva della Corte del disposto rinvio è che al termine del processo si sa che Giovanni Scattone ha sparato, ma non si sa né perché né come”, si legge dalla sentenza finale dei giudici. Manca, cioè, un movente accertato. Lo scrittore Mauro Valentini, autore del libro “Marta Russo, il mistero della Sapienza” ci dice: “Il processo Marta Russo fu l’atto giudiziario più controverso credo della nostra storia. Un intreccio di perizie che sconfessavano la ricostruzione degli inquirenti e tre testimonianze, raccolte con singolari dichiarazione spontanee. Di dubbi ce ne furono tanti. Troppi. A cominciare dal punto indicato come luogo di sparo, assolutamente improbabile per posizione e ubicazione. Non si indagò poi su alcuni soggetti interni all’università che maneggiavano armi all’interno dei locali della Sapienza e che per loro stessa ammissione erano avvezzi a giocare con le armi. Aggiungo due considerazioni soltanto: Scattone e Ferraro non furono visti da nessuno delle centinaia di studenti quel giorno, ma soltanto e con un ritorno di memoria dopo mesi dalle tre testimoni chiave. Che ricordarono cose che non convergeranno mai tra loro. L’altra cosa che trovo davvero incredibile è quella che chi quel giorno era incaricato di far le pulizie al bagno di statistica al piano terra, luogo indicato dal perito balistico incaricato dalla corte d’assise come possibile luogo di sparo, due anni dopo farà parte del gruppo ritenuto responsabile dell’omicidio del professor D’Antona”.