Dopo 15 film con la voce di Rita Savagnone, altrettanti con quella di Vittoria Febbi, e poi, ancora di quasi 20 fra le maggiori doppiatrici italiane, finalmente… Edwige Fenech, la donna dalle mille voci (in tutti i suoi 71 titoli per il cinema è stata doppiata), recita (o meglio si doppia) con la propria voce. Ci ha pensato Pupi Avati a interrompere una tradizione durata 40 anni precisi, dal 1967 al 2007, trasformandola in ‘donna parlante’ nel suo film La quattordicesima domenica del tempo ordinario, in questi giorni nelle sale italiane dove la Fenech è bravissima oltre che bellissima (nonostante, nel film, sia stata un po’ invecchiata ad hoc), alla faccia dei suoi 74 anni che porta divinamente.
Per tutta la propria carriera la Fenech si è spogliata sul set, persino nei gialli di Sergio Martino (Lo strano vizio della signora Wardh, ’71, Tutti i colori del buio e Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, entrambi del ’72, e in quello di Ruggero Deodato (Un delitto poco comune, ’88). Salvo il cameo, fortemente voluto da Quentin Tarantino, suo grande fan, che ha chiesto all’amico Eli Roth di farla apparire in un cameo nei panni di una maestra di pittura in Hostel 2 (2007).
Il solo ruolo realmente drammatico (e con i vestiti) di Edwige è questo che le ha conferito Avati che, un bel giorno, le telefona a Lisbona, dove oggi l’attrice vive in compagnia della adorata mamma (e non lavora da 16 anni) e le propone di interpretare nel suo film fortemente autobiografico “la più bella ragazza di Bologna” (Sandra) che da ragazzo gli aveva fatto perdere la testa e che fu un suo grande amore. Doppiarla? Macché. Con un geniale tocco di sceneggiatura, il regista ha ideato una Sandra giovane e una più matura: nell’oggi, la Fenech, e nel passato, la giovane esordiente comasca Camilla Ciraolo, immaginandola una svizzera francese e, dunque, con accento d’oltralpe, lo stesso di Edwige. Problema risolto.
Fra “le cose belle” che “son volate via…” (il refrain del film, la voce della canzone è di Sergio Cammariere) resta comunque la Fenech, con la sua presenza scenica, ad allietare i cuori. Avati-Marzio (da giovane, Lodo Guenzi – nella vita reale membro della band Lo stato sociale – da grande un magistrale Gabriele Lavia, assente dal cinema pure lui da oltre dieci anni e che già aveva lavorato con Avati nell’horror Zeder, ’83).
Ma passiamo a lei, la star del film. Nata a Bona (nomen omen) in Algeria (quando era ancora colonia francese) da madre di origine siciliana e padre maltese, Edwige si trasferisce con la famiglia a Nizza dove prosegue nei suoi studi di danza classica. Aveva solo 14 anni quando il regista Norbert Carbonnaux la ferma per strada e le offre un piccolo ruolo nel suo film Toutes folles de lui (’67). Poco più di un’apparizione, ma, subito dopo, mentre lei è in Italia per Lady Europa, Guido Malatesta la vede e la vuole protagonista di Samoa, regina della giungla (’68), storiella un po’ strampalata di una sorta di Tarzana che, però, le fornisce l’occasione per mostrare le proprie grazie. E via di questo erotico passo.
Dopo una permanenza in Germania, nel ’69, dove gira un paio di film piuttosto spintarelli, Alle dame del castello piace molto fare quello…, Mia nipote la vergine e altri due sulle vicende della casta Susanna, Edwige, lo stesso anno, torna in Italia e lavora ne I peccati di Madame Bovary, pellicola tedesca che viene rimontata in Italia dalla Daunia di Sergio Martino. È da qui che ha inizio la portentosa carriera italiana della Fenech che, per undici anni, sarà anche sentimentalmente legata al fratello di Sergio Martino, il produttore Luciano, che ne intuisce appieno le potenzialità.
La Fenech instaura una proficua collaborazione con il regista Mariano Laurenti con il quale è la protagonista de La bella Antonia, prima monica e poi dimonia sulla scia del genere decamerotico in quegli anni in voga e poi dell’ormai mitico Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, film che ha segnato il ruolo cult di Edwige e che, omaggiato anche da Walter Veltroni, ha creato persino neologismi nel parlar comune. Poi ci sono le varie commediole scolastiche scollacciate, quelle delle dottoresse militari, delle sexy-insegnanti, delle vedove inconsolabili, delle signore che giocano bene a scopa, delle Giovannone coscialunga disonorate con onore, persino delle nonne (Grazie nonna, ’72, che ridicolizza il Grazie zia di Samperi uscito qualche anno prima) laddove a Laurenti si aggiungono Carnimeo, Cicero, Tarantini e le docce, a beneficio degli spettatori, si sprecano. Anche Avati ha voluto omaggiarle, quelle docce, quando Sandra-Fenech chiede di farne una a Marzio-Lavia, manca l’acqua e… addio belle visioni. Ma, tant’è, la citazione ci voleva…
Film, quelle commediole pecoreccie, che hanno, comunque, radici lontane e modelli colti (da Fellini a Pasolini per non dire di certi mondo-movie del maestro Blasetti… matrici snaturalizzate, ovviamente, ma pur sempre matrici) e, volendo scavare più a fondo nella storia dello spettacolo, persino nella commedia plautina dell’antica Roma. Fra l’altro, la Fenech è una sorta di gallina dalle uova d’oro, gettonatissima dal pubblico, in un momento assai critico per il cinema nostrano. Ed è sempre nuda. La sua notorietà la porta a lavorare anche in commedie più significative, accanto a Gassman, Celentano, Tognazzi, Villaggio, Sordi (in Io e Caterina, ’80, è una robot), ma sempre in ruoli sexy. A lei si accodano, senza mai scalfirne la primogenitura Barbara Bouchet, Gloria Guida, Nadia Cassini, Carmen Russo, Michela Miti… Poi Edwige passerà alla produzione di fiction tv, non sempre memorabili…
Una ‘persecuzione’, quella dell’icona del sesso guardone, che la Fenech si è portata dietro, dimostrando comunque d’essere una attrice bravissima (a differenza di molte sue nude colleghe di allora) e oggi lo ha solo confermato grazie all’illuminazione di Pupi Avati. Bisognava aspettare l’intuizione di un grande regista ottantaquattrenne per capirlo?