“Perché padre e figlia non possono amarsi?”. Se lo chiede la dodicenne Dalva, cofanetto piccino di orecchini d’antan, vestitini col bordo di pizzo, acconciature da signora matura, bimba segregata e abusata dal padre, davanti agli occhi increduli di psicologi e assistenti sociali. L’amore secondo Dalva, della regista francese Emmanuelle Nicot, è imbevuto di questa presenza fisica fuori posto, fuori tempo, fuori luogo, della giovane protagonista (interpretata da Zelda Samson) in scena dalla prima all’ultima sequenza del film, nell’insistenza significativa di primi e primissimi piani.
La ragazzina che sembra caduta sulla terra degli adolescenti truccata da adulta – i compagni improvvisati del centro di accoglienza per minori la chiamano “Barbie” – è un’eccezione sociale, segno vittimario, deviazione dalla “normalità” che non sa e non vuole uscire dalla bolla finzionale e spaziale in cui l’ha rinchiusa il padre. Già sui titoli di testa in nero si percepisce il sonoro dell’incursione della polizia nella casa in cui padre e figlia vivono. Gli agenti stanno portando via con la forza l’uomo e Dalva vuole a tutti i costi corrergli dietro. Lo chiama, urlando, Jacques e si dimena, mordendo un altro poliziotto che cerca di bloccarla. La ragazzina finirà in un centro di assistenza per minori, accudita con severa dolcezza da Jayden (Alexis Manenti), assistente con tanto di due cicatrici strisce orizzontali sulla guancia, poi a scuola, e infine in attesa del processo in tribunale contro il padre.
La nuova vita di Dalva è costellata di tentativi di fuga dal centro, dall’incontro con la madre praticamente mai vista, dalla diffidenza e dagli sguardi trasversali di chi le sta attorno, da spunti autodistruttivi e di violenza verso una compagna sfacciata, da questo fluttuare del sentimento per il prossimo tra il malsano imprinting paterno e il percorso di crescita che naturalmente l’aspetta. Nicot stringe l’inquadratura deliberatamente sul viso di Dalva (formato Academy, che sta tornando prepotentemente di moda almeno in molte produzioni europee) e su piccole porzioni del suo corpo che faticano a mutare di segno da quella maturità femminile che non le appartiene. E in questo percorso di (tras)formazione accidentato e speranzoso, scabroso e vitale, in cui affiorano tragedia dell’incesto e orrore della pedofilia, l’odissea di Dalva è pura tensione espressiva in cui l’impercettibile graduale mutazione valoriale della ragazzina chiede in certi momenti (l’essere testimoni di nuovi, apparentemente innocenti, contatti fisici) perfino la partecipazione, in forma di tutela, dello sguardo dello spettatore. Pur avvicinandosi fisicamente al soggetto inquadrato protagonista con scelte di pedinamento alla Dardenne, Nicot concede comunque alla protagonista spiragli visivi e scenografici (l’armadio dove Dalva si nasconde) che bucano la tensione, e una luce in fondo al tunnel che invece i registi belgi non offrono drasticamente più da tempo. Girato a Bruxelles. Distribuito per l’Italia da Teodora.