Quella sera del 26 novembre 2000 non volevo vedere la partita in tv. Avevo cinque anni e non sopportavo che il mio idolo vestisse un’altra maglia diversa da quella viola. “Bati” per me era “Bati”. Avevo i suoi poster accanto al letto, ogni volta che mi capitava un pallone tra i piedi mi immaginavo con la lunga criniera, la maglia viola e la mitraglia dopo aver insaccato il pallone in porta. Avevo iniziato a tifare Fiorentina, con molta incoscienza, grazie a lui e alla sua esultanza. Così il 26 novembre 2000 decisi di non guardare Roma-Fiorentina. Era la prima partita di Gabriel Omar Batistuta da avversario dei viola. Spensi la luce della mia cameretta, andai a letto. Non volevo saperne niente. Alla fine, molti anni dopo, ho un solo ricordo ben impresso di quella sera. Mio padre che entra in camera come a volermi comunicare un’emergenza. Due frasi, la voce rotta, interrotta da una pausa. “Abbiamo perso, ha segnato Batistuta”. Quel gol, che lanciò la Roma verso il terzo scudetto, non l’ho voluto vedere per molti anni. Ricordo solo le mie lacrime, un pianto lunghissimo.
Le stesse di Gabriel Omar, quella sera, dopo aver segnato senza esultare. Le ho ritrovate nel bel libro di Andrea Romano Batistuta, l’ultimo centravanti appena uscito per la collana Vite Inattese di 66THAND2D. Un particolare di cui si era persa memoria. E invece l’autore l’ha riportato a galla. In quell’immagine di un grande campione che segna spingendo la sua nuova squadra verso la vittoria finale e nello stesso tempo piange per aver tradito la sua città adottiva, cioè Firenze, c’è tutto Batistuta. Tutta la sua grandezza e tutta la sua, perenne, inquietudine. Ma anche la sua voglia di gol, di spostare l’obiettivo sempre un po’ più in là a costo di sacrificare le proprie caviglie. E il suo amore malato per la Fiorentina e Firenze che, siamo nel 1998, arriva perfino a spargere veleno sulle sue presunte amanti che non lo farebbero più rendere in campo (tutte calunnie).
Contraddizioni, fragilità e virtù di un campione che vengono a galla nel libro del giornalista Romano. L’autore, attingendo anche dal cassetto dei ricordi, per oltre un anno e mezzo ha studiato le gesta di Bati scandagliando video, scartoffie, ritagli di giornali e biografie ormai introvabili sul mercato. Ha intervistato i suoi ex compagni di squadra (da Francesco Flachi a Luis Oliveira) ma anche i suoi ex allenatori (da Fabio Capello a Claudio Ranieri) e il suo massaggiatore Luciano Dati che ideò la mitraglia facendo arrabbiare l’allora direttore della Gazzetta dello Sport (“Ma la smettete? C’è la guerra in Kosovo”). Molte maschere e alcuni comprimari nella seppur breve carriera – ha smesso di giocare a 36 anni con le caviglie a pezzi – di Batistuta. Un lungo cammino che, come racconta Romano, lo porterà dagli stadi argentini del Newell’s al Boca, alla Fiorentina, fino agli ultimi anni divisi tra Roma, Inter e Al-Arabi per concludere la carriera. Senza mai perdere di vista la maglia biancoceleste della sua Argentina: miglior realizzatore con 56 reti, il suo record di 10 gol nelle fasi finali dei Mondiali è stato eguagliato solo da Leo Messi a dicembre in Qatar.
Ma è sui nove anni con la Fiorentina che si concentra il libro di Romano. Una carrellata di ricordi indelebili nella mente dei tifosi viola. Conditi soprattutto di gol, esultanze e cori della Fiesole. Dalla rete con cui “Bati” zittì il Camp Nou in semifinale di Coppa delle Coppe (1997) alla rasoiata con cui spaccò la porta di Wembley contro l’Arsenal (1999) fino alle perle contro Juve e Milan e la vittoria in finale di Coppa Italia con l’Atalanta. Tante gioie, ma anche tanti dolori. Per un rapporto altalenante con una tifoseria – quella di Firenze – sempre molto esigente e un presidente, Vittorio Cecchi Gori, che sognava di fare come Berlusconi col Milan ma senza averne i mezzi. Fu proprio il menage a trois complicato tra curva, Cecchi Gori e Batistuta a convincere l’argentino che fosse meglio cambiare aria (vedi alla voce: Edmundo). Per andare a vincere con un’altra maglia. L’eterno cruccio di Firenze, che non riesce mai a trattenere i suoi campioni fino a farne delle bandiere “alla Totti o alla Del Piero”.
Eppure, con Batistuta è stata fatta un’eccezione. Nonostante gli ultimi anni di carriera lontano dalla Cupola di Brunelleschi, oggi in città il Re Leone è il campione più amato, il simbolo di una squadra bella da vedere ma mai davvero vincente. Secondo solo all’unico 10, cioè Giancarlo Antognoni, mito di una generazione precedente. Non è un caso che Batistuta sia il solo giocatore viola a cui la Fiesole abbia dedicato ben due cori personalizzati. Uno dei due fa così: “Mi innamoro solo se, vedo segnar Batistutaaa…corri alla bandierina, bomber della Fiorentina!”. Ogni tanto viene rispolverato dalla curva viola, soprattutto quando “Bati” si presenta allo stadio Franchi. Sogna di tornare, lo ha detto lui, da dirigente. E Firenze è pronta ad abbracciarlo. Di nuovo.