È uscito la scorsa settimana per la collana Vite Inattese della casa editrice 66THAND2D il libro “Batistuta, l’ultimo centravanti” di Andrea Romano. Il volume (256 pagine, 18 euro) racconta le gesta del cannoniere argentino, la sua carriera, il suo amore folle (e ricambiato) per Firenze, lo scudetto con la Roma da protagonista e quella generosità che lo ha fatto andare oltre i limiti del suo corpo, per poi pagarne le conseguenze. Ecco un brano del libro, per gentile concessione della casa editrice.

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Il clima svagato intorno alla Supercoppa resta intatto ancora per una manciata di stagioni, passando indenne anche per il 5-1 con cui nel 1990 il Napoli sgasa il “calcio champagne” della Juventus di Maifredi. Per mandare in frantumi l’accidia di tifosi e stampa bisogna pazientare fino all’estate del 1996, quando l’antagonismo tra Fiorentina e Milan sembra poter passare davvero da soap opera a basso costo a grande kolossal. La trama si basa su una sperequazione, sul tentativo assillante di Cecchi Gori di annullare la distanza con Berlusconi. Per riuscirci Vittorio è costretto a moltiplicare gli investimenti, a iniettare capitali. Significa avvicinarsi il più possibile al sole, con il rischio di accorgersi troppo tardi che le proprie ali di cera si stanno sciogliendo. Ma questo è un pensiero che non sfiora neanche il presidente della Viola. Cecchi Gori ha la possibilità concreta di sfilare un trofeo a Sua Emittenza e uscire da una competizione fra i due che fino a quel momento è esistita più nelle sue parole che nei fatti. Sembra di essere immersi in La signora di Lucio Dalla, con Vittorio che parlando di Silvio potrebbe pronunciare il verso: “È un amico diventato nemico che mi ruba la voce”.

Firenze è attraversata da una scossa elettrica. E un trofeo fino ad allora irrilevante diventa improvvisamente una chiave per capire cosa aspettarsi dal futuro. “Quella fra Cecchi Gori e Berlusconi era una rivalità politica e imprenditoriale” mi racconta Emiliano Bigica durante una piacevole chiacchierata. “Vittorio ce lo ripeteva in continuazione. Ogni volta che giocavamo contro il Milan, ci martellava per tutta la settimana che portava al match. Fissava dei premi partita altissimi, ci faceva dei regali importanti. Ma se lui sentiva questo dualismo con Berlusconi, per noi si trattava di un incontro che metteva in palio una coppa, che dimostrava che ce la potevamo giocare con la squadra migliore di quegli anni”. La notte scorre via veloce. Stavolta senza paure. Finalmente senza fantasmi. “Gabriel aveva il fuoco dentro alla vigilia di ogni partita – aggiunge il centrocampista viola che in quel match entrerà a tre minuti dalla fine – è stato così anche prima della Supercoppa. Non solo aveva voglia di migliorarsi, ma riusciva anche a trasmettere questa sua fissazione agli altri, a farli salire di livello”.

Gli effetti della terapia di gruppo guidata da Batistuta si manifestano chiaramente nella serata del 25 agosto. L’aria di San Siro è pesante. Per l’umidità che inzuppa le maglie. Per i fumogeni che strozzano il respiro. All’undicesimo minuto Sandro Cois sfila il pallone a Desailly e lancia in avanti verso Gabriel. La sfera taglia il campo velocemente, ma quando si abbassa infila l’argentino nel collo di un imbuto. Batistuta è solo, proprio sul limite dell’area di rigore, con Franco Baresi a sbarrargli la strada e Paolo Maldini appiccicato alla sua schiena. La maggior parte degli attaccanti finirebbe per farsi smaterializzare da due che in quel momento compongono la metà esatta della difesa più forte del mondo. Gabriel invece trasforma uno stop di destro in un pallonetto, un sombrero che scavalca Baresi succhiando via il talento dal suo corpo in una frazione di secondo. Il sei rossonero copre il pallone spostandosi verso sinistra, solo che l’argentino lo svernicia accelerando sulla destra e si ritrova solo davanti a Sebastiano Rossi. Il portiere è piantato un metro prima della linea di porta, con le gambe larghe e le braccia spalancate. Gabriel colpisce al volo. È un tiro sporco, con l’esterno destro. Ma viaggia veloce. Rossi un po’ si tuffa e un po’ frana a terra, trasformandosi nel “portiere caduto alla difesa ultima vana” descritto da Umberto Saba. E non può far altro che raccogliere il pallone in fondo alla rete. Il gol è pesante, ma soprattutto esemplare. Perché racchiude tutte le caratteristiche che secondo Bigica rendono unico Batistuta. “La peculiarità di Gabriel, il dato che lo differenziava da tutti gli altri grandi attaccanti, era la sua capacità di attaccare lo spazio e di calamitare il pallone” mi dice il centrocampista. “Non so come facesse, forse il senso di potenza che esprimeva lo portava sempre a scrollarsi di dosso l’avversario. E poi ogni volta che aveva il pallone sul destro suonava a morto. Scagliava delle sassate incredibili. Ho visto la palla seguire traiettorie impensabili”.

L’euforia si scioglie una decina di minuti più tardi, quando il genio intermittente di Dejan Savićević decide di accendersi fino a raggiungere un’intensità abbagliante. Il fantasista si allarga sulla destra e converge verso il centro muovendosi in una danza sinuosa che manda fuori tempo prima Amoruso e poi Schwarz. Subito dopo il dieci rossonero fa un paio di passetti e scaglia un sinistro secco che si infrange contro la base del palo e schizza alle spalle di Toldo. Il resto della partita è una guerra di trincea fra la voglia di vincere e la paura di perdere. Va avanti così fino a sette minuti dalla fine, quando la scarpa nera di Desailly picchia forte contro le caviglie di Batistuta. La punizione è centrale, ma dista venticinque metri dalla porta di Rossi. Gabriel sistema la palla e indietreggia di qualche metro. Con le mani appoggiate sui fianchi e la maglia bianca fuori dai pantaloncini viola. Quando Treossi fischia, l’argentino avanza veloce. Fa un passo, due passi, tre passi. Poi scaglia in porta un destro che sorvola la barriera e plana sul palo opposto a quello coperto da Rossi. Gabriel apre le braccia e trotterella con una faccia stirata dalla meraviglia. Dopo qualche secondo cambia direzione, si avvicina alla telecamera, scocca un bacio e ci urla dentro tre parole: “Irina, te amo! Irina, te amo!”. È una dichiarazione d’amore che si fa esultanza, qualcosa di molto vicino alle “parole private pronunciate in pubblico” di una poesia di T.S. Eliot. Il problema è che la destinataria della dedica non si accorge di niente. Irina è nella casa di Forte dei Marmi insieme ai bambini. E lì non c’è il decoder per sintonizzare la televisione su Tele+.

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