Chi è stato ragazzino negli anni ‘90 sa quanto fosse difficile entrare in contatto cognitivo diretto con il mondo della pallacanestro per chiunque vivesse lontano da un playground, da un palazzetto, o in una città dalla tradizione cestistica insufficiente. In piena era Jordan, con tutto il carrozzone commerciale e mediatico che ne conseguiva, si aveva l’impressione di perdersi qualcosa, di avere spesso davanti agli occhi un tesoro di narrazioni agonistiche di cui, al di là dell’eco pop, si capiva in realtà poco o nulla.

Per molti il passo iniziale verso quel mondo fu incoraggiato da Slam Dunk, manga spokon (a tema sportivo) di Takehiro Inoue, i cui protagonisti – una manciata di teppisti in cerca di riscatto sociale o emotivo – indossavano una casacca ispirata proprio a quella dei Chicago Bulls, per attaccare il ferro nella palestra di un liceo giapponese. Il rissoso quintetto di adolescenti – quasi tutte monadi indisponenti, lontanissime dalla risoluzione dei propri traumi – era composto dal megalomane ma generoso Hanamichi Sakuragi, dall’altezzoso e talentuoso Kaede Rukawa, dallo stoico e burbero capitano Takenori Akagi, dall’anarchico individualista Hisashi Mitsui e dallo sprezzante Ryota Miyagi. Tra il 1993 e il 1996 la Toei Animation produsse dunque un anime ispirato al manga, trasmesso In Italia da MTV a partire dall’ottobre 2000, che contribuì a rendere maggiormente popolari le vicende del liceo Shohoku. Come tutti gli appassionati sanno, l’anime terminava in un punto in realtà cruciale del manga, che lasciava quindi in sospeso la narrazione sul più bello.

The First Slam Dunk è il lungometraggio tanto atteso che, più di vent’anni dopo, riprende le fila della storia più o meno da dove era stata interrotta in video, e riparte dal secondo turno del campionato nazionale interscolastico, cioè dalla sfida con l’imbattibile formazione del liceo Sannoh, detentore del titolo da ben quattro anni. Il punto di vista privilegiato dell’azione stavolta non è più affidato al fiammeggiante Hanamichi Sakuragi, rimbalzista sopra le righe, bensì al rapido palleggiatore Ryota Miyagi, di cui viene approfondita l’origine drammatica, ovvero la scomparsa del fratello maggiore Sota – cestista promettente – del quale non si è mai sentito all’altezza tanto sul campo quanto nel cuore della madre. Ed è proprio nella partita più importante della sua giovane vita che il dolore della perdita torna a galla, isolandolo in mezzo ad avversari giganteschi come la montagna che non ha ancora scalato: il senso di inferiorità nei confronti di Sota.

Scelta poetica, dato che Miyagi è anche il playmaker della squadra, ed è quindi dalla sua ispirazione e dai suoi lanci che dipende l’azione collettiva. L’avversario è il migliore mai incontrato, decisamente fuori dalla portata dello Shohoku, ma ancor prima di questo sono i demoni privati dei ragazzi a impedire una reazione degna di questo nome, ognuno sta infatti perdendo la partita con se stesso prima di quella col Sannoh: Rukawa non la passa mai, Akagi ha perso fiducia perché ha di fronte a sé un equivalente nettamente più forte, Mitsui è esausto a causa del suo stile di gioco caotico, e Sakuragi è ossessionato dalle proprie pose. Miyagi avrà il tempo di una partita per ritrovarsi, e innescare con i suoi guizzi quattro compagni che devono imparare a fidarsi l’uno dell’altro, a rilanciare sui propri punti deboli e a sacrificare una parte di se stessi per raggiungere un obiettivo comune, all’apparenza lontanissimo.

La trama è semplice ma solida, al pari di un bildungsroman contenuto e autosufficiente, e soprattutto supportata da una narrazione visiva diegetica e straordinaria, che combina ad arte disegno a mano e CGI, in modo da rendere iper-realistico quello che è di base il tempo effettivo di una partita da basket, mescolato al tempo sospeso dei ricordi.

È anche per questo motivo che The First Slam Dunk trascende la propria natura di sequel animato e assurge allo status di pellicola sportiva esemplare, di capolavoro filmico sia dal punto di vista formale che da quello dei contenuti. Il lungo tempo fatto passare da Inoue non è stato il vezzo di un artista, ma la giusta attesa affinché la tecnologia fosse all’altezza della propria visione. Il pubblico saprà ringraziare, sia quello vecchio che quello nuovo.

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