Ci sono opere d’arte che non si osservano. Ci si entra dentro con il pensiero, con il sentimento, con la speranza. Come individui di una collettività che può, volendo, superare confini, differenze, limiti.
Quale speranza? Quella della pace fra i popoli, del dialogo fra culture e religioni, della fine di ogni guerra. La mostra-installazione di Michelangelo Pistoletto che Palazzo Reale di Milano ospita fino al 4 giugno nella Sala delle Cariatidi trasforma questo concetto immenso in un percorso di consapevolezza. Qualcosa di vicino a noi, prossimo a noi.
S’intitola “La Pace Preventiva” ed è strutturata come un labirinto simbolico in cui il visitatore può percorrere diverse direzioni fra cumuli di cartone ondulato a formare delle spirali. Le opere dell’artista, da raggiungere una per una, sono tutte istantaneamente visibili nella grande sala. La stessa che nel 1953, ancora gravata dai segni della seconda guerra mondiale, esponeva il Guernica di Picasso, uno dei suoi più importanti lavori di contenuto sociale e politico. A ricordo di questo evento la colomba della pace disegnata dall’artista spagnolo diventa, portando sul becco il simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, il simbolo stesso dell’installazione.
Curata da Fortunato D’Amico, prodotta dal Comune di Milano, Palazzo Reale e Cittadellarte – Fondazione Pistoletto in collaborazione con Skira, la mostra ospita i principali lavori dell’artista, considerato il maggior esponente dell’arte povera, in oltre sessant’anni di ricerca e attività. Perché chiamarla “Pace preventiva”?
“Era il marzo del 2003 quando Bush e Blair, appoggiati da numerosi governi, dichiaravano guerra preventiva all’Iraq – spiega Pistoletto – la circostanza mi ha procurato un turbamento profondo. Tutte le malformazioni culturali ereditate dal passato venivano al pettine: il concetto stesso di guerra preventiva faceva sorgere l’impellente necessità di contrapporre l’idea di pace preventiva”. E aggiunge: “Nella storia la pace è sempre venuta a seguito di una guerra ed è stata considerata come suo risultato, dunque guerra nascosta sotto la maschera della pace e pace costituita di mera apparenza”.
Già un anno prima l’artista aveva fondato “Love Difference – movimento artistico per una politica inter-mediterranea”. Un manifesto programmatico allo scopo di raccogliere attorno alle regioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo persone e istituzioni interessate a creare nuove prospettive. “Da una parte la differenza tra etnie, religioni e culture è oggi – scriveva l’artista – causa di terribili conflitti; dall’altra la drammatica situazione prodotta dalla supremazia dei poteri produce l’uniformità e il livellamento delle diversità”.
Perché interMediterraneo? “In questo bacino si scaricano senza sosta le tensioni mondiali”, rispondeva.
Oggi, a distanza di vent’anni da quel manifesto, si rimane immobili in silenzio a guardare il grande tavolo a specchio che ha la forma del nostro mare, con attorno sedie di ogni foggia e stile, antiche e contemporanee, povere e ricche. Tutte però ancora vuote. Più che all’idea di assenza, l’opera “Love Difference – Mar Mediterraneo” (2003-2005) crea la percezione di una possibile presenza.
Nel tragitto disorientante fra le installazioni dell’artista colpisce anche il “Luogo di raccoglimento multireligioso e laico” (2000-2005). È uno spazio suddiviso in sezioni disposte attorno ad un’area centrale. In quattro sezioni è collocato il simbolo della religione ebraica, cristiana, buddista, islamica. La quinta sezione è dedicata al laicismo. L’area centrale ospita il “Metro cubo d’infinito”, opera del 1966 costituita da un cubo formato da specchi con la superficie riflettente rivolta verso l’interno. Dentro ci sono le risposte che tutti cerchiamo? Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo. In quello spazio circolare le domande fondamentali dell’essere umano sono rivolte verso un unico centro, fanno parte della ricerca spirituale che accomuna tutti.
Nel percorso labirintico, seguendo un ipotetico filo di Arianna, si scoprono alcune delle più iconiche opere dell’artista, attualmente il più presente nei musei del mondo. Dalla “Mela Reintegrata” che con quella sua cucitura propone un’integrazione tra il mondo artificiale e quello naturale alla “Venere degli Stracci” (1967-2013), in cui il contrasto è fortissimo: la forma della classicità è di spalle quasi sommersa dal cumulo di abiti usati senza più valore.
Ci sono diverse opere a specchi in acciaio inox, compresa quella a libro con le due dita che si toccano (ConTatto), in realtà composta da un solo un dito che sembra toccare l’altro in un riflesso. C’è il “Mappamondo” fatto di giornali pressati, ma è ingabbiato. In un video lo stesso artista spiega quel particolare simbolo dell’infinito da lui riveduto che ha in bocca la colomba e decora la locandina della mostra. È il simbolo del Terzo Paradiso, riconfigurazione del segno matematico dell’infinito composto da tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutte le diversità e le antinomie, tra cui natura e artificio. Quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità.
Nella “Gabbia specchio – divisione e moltiplicazione dello specchio” ci si vede riflessi da varie angolazioni: diventiamo soggetti attivi di questa nuova umanità possibile.