Da mesi, ormai, la guerra mostra un sostanziale stallo sul campo di battaglia. Mentre gli eserciti ucraino e russo da mesi dimostrano di non poter prevalere, almeno al momento, l’uno sull’altro, non si fermano la corsa alle armi, il ricorso a nuove strategie e gli appelli ai rispettivi alleati. Così, mentre la Russia, forte comunque di un vastissimo arsenale, teme per un disimpegno economico della Cina e rafforza i legami con il Sudafrica, Volodymyr Zelensky continua a chiedere senza sosta nuove armi sempre più potenti ai partner occidentali. E tra i missili a lungo raggio in arrivo da Londra e nuovi carri armati da Parigi, adesso arrivano anche le prime aperture ai caccia. Così, l’escalation prosegue senza freni apparenti.
Sembrano lontanissime, e forse se si considerano le tempistiche di guerra lo sono, le dichiarazioni rilasciate dal presidente americano Joe Biden appena 20 giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina: “L’idea che invieremo armi offensive e che avremo aerei e carri armati e treni che entreranno in azione con piloti americani ed equipaggi americani, capite – e non illudetevi, indipendentemente da quello che dite – si chiama ‘Terza Guerra Mondiale’”. Oggi quelle parole sono ampiamente superate dagli eventi: sono stati proprio gli americani a fornire il sistema lanciarazzi Himars, capace di sparare anche ordigni a lunga gittata, all’esercito ucraino. Armi che permetterebbero a Kiev di colpire la Federazione anche oltre le linee di confine riconosciute. Come in effetti è avvenuto con i diversi attacchi che si sono registrati contro obiettivi strategici, e non solo, in territorio russo: dai depositi di carburante a quelli di munizioni, fino agli aeroporti.
La Terza Guerra Mondiale temuta da Biden, però, non è iniziata. Così il blocco filo-Kiev ha alzato la posta in gioco. Ed ecco che ai sistemi anti-aerei, forniti anche dai Paesi Ue, Italia compresa, e ai droni che in più di un’occasione hanno sferrato attacchi in territorio russo si è presto aggiunta un’altra arma inizialmente inserita nella lista nera degli Stati Uniti: i carri armati. A gennaio Washington ha deciso di inviare nell’area di conflitto i propri tank Abrams, mentre dall’Europa arrivava l’ok del cancelliere tedesco Olaf Scholz all’invio dei Leopard a Zelensky, aprendo i flussi da diversi Paesi europei.
In questi giorni, con l’offensiva russa che sembra essersi conclusa in un sostanziale nulla di fatto e la controffensiva ucraina che, allo stesso modo, stenta a partire per stessa ammissione dei vertici di Kiev, il nuovo tour di Zelensky rischia di rappresentare un nuovo passo in avanti dell’escalation. Arrivato in Italia, ha incassato il pieno impegno di Giorgia Meloni per un “sostegno a 360 gradi all’Ucraina, fino a quando sarà necessario. Anche dal punto di vista militare”. Poi in un giorno è volato in Germania e Francia, per poi arrivare lunedì in Gran Bretagna. La richiesta è chiara: “Basta linee rosse sulle armi, serve una coalizione europea per fornire cacciabombardieri a Kiev“. Le risposte sono state diverse tra loro: Scholz ha evitato di entrare nel merito, Macron ha promesso nuovi carri armati, mentre Sunak ha offerto, come promesso, missili a lungo raggio e droni per la difesa aerea. Nonostante le rassicurazioni dei mesi scorsi, nessuno di loro ha smentito la possibilità di fornire i jet all’Ucraina, con Londra che, anzi, ha annunciato l’inizio dell’addestramento dei militari di Zelensky sugli F-16. Ma il passo in avanti sui caccia, in realtà, lo aveva già fatto il presidente ceco Petr Pavel qualche giorno fa: “Vale la pena valutare la possibilità di fornire all’Ucraina i nostri aerei L-159. Come aerei di supporto diretto al combattimento potrebbero aiutare in modo significativo l’Ucraina nella controffensiva”. L’escalation continua.