Sul caso della famiglia queer di Michela Murgia verrebbe da dire che è stato detto tutto dalla scrittrice. Tale realtà, che in altri tempi e con altri termini, avrebbe potuto definirsi come “famiglia allargata”, è basata su relazioni molteplici che concertano dinamiche complesse nella costante ricerca di un equilibrio misurato sulle identità che la compongono. Basterebbe solo questo per prendere atto della sua giustezza, senza sentire l’esigenza di uno sguardo giudicante.
La qualità della famiglia queer di Murgia emerge in alcune dichiarazioni della stessa, che è opportuno riportare: “Organizziamo il lavoro, curiamo le fragilità, ritira la tintoria, bagna le piante, ho preso gli agretti per la cena insieme di domani, mamma ti manda il panettone, non preoccuparti di questo, chiama l’idraulico, ci penso io, ci pensiamo noi”. È tutto qui. “Nessun ‘ti amo’ varrà mai quanto un ‘ci penso io’”. Basterebbe solo questo.
Ancora: “La proprietà non si esercita sulle persone. Per chi arriva in questo sistema non è sempre facile”. Una complessità di vite che si intrecciano in un luogo fisico coabitato. Se dovessimo soffermarci alla sola etimologia – spesso evocata come detentrice di verità immutabili – “famiglia”, dal latino familia e a sua volta derivato dall’italico famel, riporta alla dimensione domestica. Alla casa. E quindi ciò che l’autrice dichiara in apertura del suo discorso potrebbe anche costituirne la chiosa: “Vi svelo un segreto: esattamente come tutte le famiglie, una famiglia queer è un posto dove si organizza la responsabilità reciproca, non le scopate”. È nello sguardo eteronormativo – che come ricorda Murgia ipersessualizza le diversità e romanticizza la tradizione – il problema.
L’ansia di dover valutare realtà non conosciute sotto la lente del pregiudizio morale fa dell’agito sessuale il discrimine. Operando una doppia ingiustizia: rende pornografico quel sistema di relazioni, in primis; e confina la sessualità, ad ampio spettro, dentro uno steccato pruriginoso che svaluta e sporca il sesso.
Il sesso è una dimensione cruciale nell’economia delle relazioni tra persone. Può essere solo desiderio agito, senza alcun trasporto sentimentale. Può essere il coronamento di un rapporto affettivo. Può essere abitato dalla noia, da tentativi sovradeterminanti o – all’opposto – da una consapevolezza che rompe schemi e recinti. L’unico discrimine che dovrebbe indurci a produrre un giudizio morale quando ne parliamo è quello del consenso. E della reciprocità, nell’ottica della simmetria dei rapporti tra tutte le componenti relazionali in gioco.
È un vizio vecchio, d’altronde, quello dello sguardo eteronormativo. Di fronte alla diversità che affonda il suo dominio d’esistenza della casella del genere, reagisce ipersessualizzando. Le coppie omosessuali si sentono rivolgere spesso una domanda: chi tra i due partner fa l’uomo e chi la donna? Riducendo le relazioni a mero atto penetrativo. E viene in mente quella battuta, per cui fare una domanda del genere equivale a chiedere a due bacchette giapponesi chi fa il coltello e chi la forchetta. Non siamo un succedaneo, siamo altra cosa. È nelle difficoltà della vita e nella presa di responsabilità nei confronti dell’altrə che possiamo trovare “identità”. E basta questo per reclamare e ottenere diritto d’esistenza.
La famiglia, intesa come categoria antropologica e sociale, non si limita certo all’agito sessuale e al genere dei suoi componenti e questa non è una verità recente. Una famiglia iraniana, oggi, avrà peculiarità che la differenziano da una norvegese. Nell’impero romano era una realtà molto diversa dalla famiglia nucleare ottocentesca, definita dai rapporti economici nati con la rivoluzione industriale. Lo storico Ernst Hinrichs, in un suo pregevole saggio, ci ricorda che nella prima età moderna ciò che costruiva la “famiglia” non era l’amore, ma i rapporti economici.
Sarebbe (ed è) un errore pensare inoltre che la famiglia possa essere ricondotta solo al suo momento procreativo: sia perché non tutte la famiglie hanno prole (per destino biologico o per scelta dei componenti), sia perché la procreazione può avvenire serenamente (o anche in modo traumatico, se pensiamo alle violenze sessuali) al di fuori di qualsiasi contesto familiare.
La fluidità dei rapporti, sessuali e sociali, è una costante dell’umanità. Potremmo dire, anzi, che la fluidità è condizione necessaria dell’essere umano, in quanto senza mutevolezza non avverrebbe il cambiamento. Ingrediente essenziale per l’evoluzione, personale e sociale. E anche biologica e psicologica. Ridurre tutto a “chi scopa con chi” non definisce le famiglie che si sottraggono all’eteronormatività. Ma chi opera questa miope riduzione di complessità a becero prurito sessuale. E sessuofobico, a dirla tutta.