di Salvatore Borsellino, Angela e Gianluca Manca, Paola Caccia, Nunzia Agostino, Stefano Mormile
Ieri la giustizia italiana ha scritto una pagina storica.
Può sembrare una frase esagerata, ma la verità è che la sentenza emessa ieri sera pochi minuti prima delle 20:00 dalla Corte di Cassazione, che ha messo il timbro definitivo sulla condanna per associazione mafiosa (fino al 2000) a carico di Rosario Pio Cattafi, ha onorato quella frase presente in tutte le aule di giustizia italiane: la legge è uguale per tutti.
E ieri la legge è stata uguale anche per uno dei cosiddetti – e dall’arresto di Matteo Messina Denaro tanto tirati in ballo – “colletti bianchi”. Quell’alta borghesia mafiosa che è difficile definire soltanto tale, poiché talmente legata agli apparati deviati del potere (istituzionale, massonico, finanziario, ecc.) che i suoi confini risultano sfocati e nebulosi agli occhi di chi cerca di indagarli.
Sarebbe necessario, per comprendere a pieno la nostra gioia e la gratitudine verso i Pubblici ministeri Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio e, soprattutto, verso il nostro avvocato Fabio Repici (presente nel processo non solo in qualità di difensore di parte civile ma anche di vittima, poiché oggetto delle calunnie – oramai accertate con sentenza definitiva – di Cattafi), ripercorrere il lungo e tortuoso percorso che ha portato a questa giornata ma, per problemi di spazio, ci limiteremo solo a riassumere il “colletto bianco” condannato ieri.
Rosario Pio Cattafi, classe 1952, laureato in giurisprudenza, è un criminale “sui generis”: probabilmente l’unico ad aver avuto legami con sottosegretari di Stato, assessori regionali, mediatori internazionali di armamenti, boss di Cosa Nostra, magistrati, esponenti della destra eversiva, rappresentanti delle forze dell’ordine, industriali di livello nazionale e internazionale, personaggi del mondo dello spettacolo e massoni con ruoli di potere. Cattafi ha sul petto anche due vergognose medaglie: essere stato il testimone di nozze del capomafia di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, ed essere stato uno dei rari mafiosi al quale ha fatto riferimento il famoso “capo dei capi” Totò Riina, utilizzando nei suoi confronti l’importante appellativo (per la gerarchia mafiosa) “zio Saro”.
Sono quarant’anni che questo personaggio entra ed esce da inchieste giudiziarie e processi penali, anche per mafia: già pregiudicato per porto e detenzione abusivi d’arma da fuoco, lesioni (in concorso con il mafioso poi “artificiere” della strage di Capaci, Pietro Rampulla) e calunnia (ai danni del primo collaboratore di giustizia barcellonese che mosse accuse nei suoi confronti, Carmelo Bisognano, e dell’avvocato di diversi familiari di vittime di mafia, Fabio Repici), il nome di Rosario Cattafi è entrato nelle indagini sull’omicidio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, sull’omicidio del medico Attilio Manca, sull’autoparco di Via Salomone a Milano (una delle basi operative di un “consorzio” mafioso di cui faceva parte anche la “famiglia” che ordinò l’uccisione dell’integerrimo educatore carcerario Umberto Mormile) e nell’indagine della Procura di Palermo sui cosiddetti “Sistemi Criminali” (assieme a personaggi del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie).
Condannato in primo grado per associazione mafiosa con l’aggravante di avere diretto la cosca di Barcellona Pozzo di Gotto, la sentenza di appello fece cadere l’aggravante e dichiarò esaurita l’intraneità all’associazione nell’anno 2000. La Cassazione rinviò il processo alla Corte d’appello, per esaminare meglio le prove della associazione tra gli anni 1993 e 2000. Così facendo, creò due cosiddetti “giudicati interni”, condannandolo definitivamente per il periodo compreso tra gli anni ’70 e il 1993 ed assolvendolo per quello compreso tra il 2000 e il 2012. La seconda sentenza di appello confermò la prima: condannato nuovamente per il periodo precedente al 2000.
Nel periodo del caso di Alfredo Cospito, l’anarchico che chiede l’abolizione del 41-bis, è interessante ricordare che Rosario Cattafi è probabilmente l’unico carcerato al 41-bis per il quale, dopo una condanna per mafia in primo e secondo grado, fu ordinata la scarcerazione (non la sospensione del 41-bis, proprio la libertà totale); secondo i giudici, il suo ruolo nella mafia era “anomalo” e per lui – e solo per lui – non valeva il criterio, pacifico da decenni in giurisprudenza, secondo il quale l’intraneità all’associazione mafiosa sia da ritenersi provata senza soluzione di continuità dall’ingresso in essa, a meno che non sia intervenuta una esplicita e volontaria forma di recesso (come la decisione di diventare collaboratore di giustizia) o la morte. E’ stato anche l’unico detenuto per associazione mafiosa (Cosa Nostra) al quale è stata applicata la “Convenzione tra Aisi e Dap”, il nuovo nome del “protocollo farfalla”.
Ebbene, sono queste istituzioni quelle che sono riuscite ad ottenere un verdetto di condanna anche nei confronti di un criminale con tali rapporti con il potere, quelle che professano una legge uguale per tutti per poi, nella pratica, non disattenderla, che possono permettersi di esortare i cittadini a fidarsi della giustizia italiana.
Dopo la sentenza di appello sulla trattativa Stato-mafia, che ha scritto nero su bianco che lo Stato può favorire e trattare con un clan mafioso per eliminarne un altro più violento, il verdetto della Corte dimostra che anche i criminali ammanicati con i peggiori poteri deviati e che riescono a rimanere (quasi del tutto) impuniti per quarant’anni possono e devono essere condannati.
Ps. Per chi avesse voglia di approfondire l’argomento e saperne di più su alcune delle vicende richiamate che riguardano Rosario Cattafi, è disponibile un dossier a questo link.