“Speriamo che si approfondiscano le tracce sulla scena del crimine e le incongruenze esistenti su questo omicidio camuffato da suicidio. Speriamo che il Gip non archivi”. Così Anna Motta e Giuseppe Paciolla commentano a Ilfattoquotidiano.it mentre la Gip di Roma, Monica Ciancio, è chiamata a valutare se sia stata corretta l’archiviazione dell’indagine relativa alla morte di loro figlio Mario Paciolla. Il cooperante italiano era stato ritrovato senza vita il 15 luglio 2020 nella sua abitazione a San Vicente del Caguán, nel dipartimento di Caquetá, in Colombia. Dipendente operativo della missione di verifica delle Nazioni Unite nel Paese, era stato trovato impiccato al soffitto della sua casa con un lenzuolo in un apparente scenario di morte autoinflitta.

I pm romani avevano avviato un fascicolo per omicidio contro ignoti, ma le verifiche svolte in questi anni non avrebbero portato al concretizzarsi di questa ipotesi. Per gli inquirenti la strada più accreditata sarebbe quella di un gesto volontario, ma i familiari del cooperante hanno presentato opposizione all’archiviazione.

Sono infatti molti i punti della vicenda che continuano a non essere chiari, come è stato ricordato in aula dalle avvocate che seguono il caso Emanuela Motta e Alessandra Ballerini. “Siamo contenti di aver potuto discutere davanti a un giudice tutte le incongruenze, molte di tipo scientifico e medico, rispetto alle quali pensiamo che si debba ancora procedere con le indagini”, spiega a Ilfattoquotidiano.it l’avvocata Motta. “Il giudice ha ascoltato con attenzione e ora attendiamo una risposta. Siamo soddisfatti di quanto abbiamo portato in aula. Sono aspetti che credevamo di dover rilevare, rispetto ai quali non si poteva soprassedere e che non sono assolutamente spiegabili con il suicidio. Come da anni ripetono i genitori di Mario. Speriamo sia fatta luce sull’accaduto”.

I genitori di Mario non hanno mai creduto all’ipotesi che loro figlio si fosse tolto la vita. Tra gli elementi che non rendono convincente questa ipotesi c’è la pulizia della scena del crimine, coordinata direttamente dall’allora responsabile della sicurezza della missione Christian Thompson che sarebbe entrato nell’appartamento del cooperante facendosi consegnare le chiavi dal proprietario colombiano. Il suo nome -e quello del collega Onu Juan Vasquez e dei quattro agenti presenti sul posto – figura nella denuncia che a luglio 2022 la famiglia aveva presentato alla Procura generale di Bogotà. I due funzionari dell’Onu si sarebbero introdotti nella casa del cooperante, ripulendo la scena del crimine con la candeggina compromettendo così prove che sarebbero state fondamentali per accertare l’omicidio. “Purtroppo l’Onu, attore principale di questa triste vicenda, continua a restare ‘latitante’ con noi. In ogni caso ci piacerebbe ricordare che l’unica a sapere della partenza di Mario era proprio la sua organizzazione che tra l’altro gli aveva procurato la documentazione. Eravamo in piena pandemia, Mario era in smart working, usciva poco sul territorio e stava rientrando con un volo umanitario”, commentano Anna Motta e Giuseppe Paciolla. Il cooperante infatti sarebbe dovuto partire da Bogotà il 20 luglio, cinque giorni dopo la sua morte, e aveva avvisato amici e familiari del suo rientro in Italia.

Secondo le ricostruzioni del quotidiano El Espectador, Paciolla aveva fatto ricerche su un bombardamento, avvenuto il 29 agosto 2019 ad opera dell’esercito colombiano, sull’accampamento di Rogelio Bolivar Cordova, il comandante di una cellula di dissidenti delle Farc, nel quale erano morti anche sette minorenni. Questa notizia avrebbe portato alle dimissioni del ministro della Difesa Guillermo Botero tramite Raul Rosende, direttore della missione di verifica di Mario. L’esito avrebbe creato tensioni anche all’interno delle Nazioni Unite e lo stesso Mario aveva raccontato di essersi scontrato con i capo missione e di non essersi sentito al sicuro.

Non solo. A luglio 2022 erano emersi nuovi dettagli grazie alla giornalista Claudia Julieta Duque che conosceva il cooperante: la reporter aveva riportato alcuni elementi contenuti nel rapporto della seconda autopsia fatta in Italia, consegnata alla Procura di Roma nell’autunno 2020 e sulla quale le autorità italiane e colombiane avevano mantenuto il riserbo. Questi dettagli certificavano che alcune prove non trovano alcuna spiegazione nel contesto dell’ipotesi del suicidio, ma facevano guardare all’ipotesi dello strangolamento, con alcune ferite che avrebbero potuto essere state inflitte quando Paciolla era in uno stato agonizzante oppure già morto.

“La vicenda di Mario non è un affare di famiglia ma coinvolge l’intera collettività”, concludono Anna Motta e Giuseppe Paciolla. “Oggi la partecipazione collettiva e il sostegno rimangono e resteranno sempre la nostra forza. Coinvolgere persone intorno alle tristi vicende significa prendersi cura delle persone che non ci sono più. Ma significa anche prendersi cura di tutti i costruttori di pace che potrebbero essere coinvolti in fatti delittuosi che oggi, essendo cittadini del mondo, potrebbero colpire ognuno di noi”.

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