Società

Covid, clima e guerra: contro una gestione dall’alto di queste emergenze

di Paolo Bartolini, analista biografico a orientamento filosofico, saggista e poeta, e Sara Gandini

Tre eventi/fenomeni giganteschi hanno caratterizzato l’inizio degli anni Venti di questo secolo. La sindemia Covid-19 e la governance militarizzata della stessa, la guerra in Ucraina e la ridefinizione degli equilibri di potenza internazionali, l’entrata in scena – anche nel mainstream – della questione ecologica e del global warming come emergenze da affrontare con agende politiche stringenti.

Il potere ci ha fornito una lettura schematica e semplificata di queste emergenze (sanitaria, di guerra, ambientale), scatenando sovente reazioni contrapposte e altrettanto manichee.

Nel nostro piccolo vorremmo avanzare qui una prospettiva “complessa” sui tre fenomeni in oggetto, che possa orientare la discussione senza perdere di vista quel nodo borromeo che tiene insieme pace, giustizia sociale e giustizia ecoclimatica. Togliendo anche solo uno di questi elementi, il nodo è destinato a disfarsi.

Prima di tutto partiamo dal fatto che la retorica emergenziale non favorisce la ricerca condivisa di soluzioni, comprimendo lo spazio della politica e del dibattito pubblico. Ogni evento critico può, dentro la cornice di uno stato di emergenza permanente, evocare l’intervento dell’uomo forte. Ne è prova la gestione controversa della sindemia, con le sue derive autoritarie, che ha espresso la necessità del sistema tecno-capitalista di padroneggiarne gli sviluppi senza disturbare minimamente il pilota automatico del neoliberismo. I tagli bipartisan alla sanità pubblica, la medicina territoriale lasciata a se stessa, l’assenza di una personalizzazione delle cure sono fattori strutturali di un’impostazione culturale e politica che pensa la salute in balia degli interessi privati.

Il pessimo dispositivo del green pass, imposto con l’inganno, e le discriminazioni verso i riluttanti alla vaccinazione hanno polarizzato verso il basso quel conflitto che esiste realmente tra popolazione e blocchi di interessi sostenuti da centri finanziari, multinazionali e decisori politici pavidi e subalterni (a cui dobbiamo, tra l’altro, la paralisi della scuola e numerosi danni psicosociali ai nostri giovani, sacrificati sull’altare di una strategia ottusa di fronteggiamento dell’emergenza).

Rilanciare la scuola tanto quanto la sanità pubblica e una medicina nonviolenta sui territori, rifiutando certificazioni verdi e forme di cittadinanza a punti con relativa sospensione dei diritti costituzionali, è la priorità per una lotta trasversale che sappia concentrarsi sulla costruzione di rapporti non coercitivi tra Stato, comunità e singoli.

La guerra in Ucraina, cominciata nel 2014, ci vede da un anno e mezzo di fronte a una invasione illegittima di uno stato sovrano, oggi preda di forze soverchianti (quelle russe, ma anche quelle “alleate” della Nato). Detto questo è urgente ribadire che l’aggravarsi del conflitto sul fianco est dell’Europa non è un risultato inaspettato, bensì un esito messo in conto dai manovratori atlantici che intendono frenare il passaggio già in atto a un mondo multipolare. Lavorare oggi per riaprire il canale diplomatico, fermando l’invio di armi a Zelensky e promuovendo una responsabile presa in carico della questione geopolitica internazionale, significa mettere in discussione la passiva collocazione dell’Italia e dell’Ue dentro il perimetro degli obiettivi strategici d’oltreoceano.

Per quanto riguarda i cambiamenti ecoclimatici, invece, è indispensabile sottolineare che gli effetti disastrosi del tecno-capitalismo sono indiscutibili. Inquinamento, consumo del suolo, deforestazione, allevamenti intensivi: questi e altri fenomeni contribuiscono a devastare la biodiversità e a rendere invivibile il pianeta, nuocendo a umani e non umani. Sul versante del surriscaldamento globale la maggior parte degli studi converge verso una diretta correlazione tra azioni umane e alterazioni del clima (mediante emissioni di CO2 in atmosfera). Alcuni scienziati contestano questa lettura prevalente, tuttavia il peso specifico delle loro osservazioni critiche non modifica una certezza: la transizione – dalla società degli idrocarburi e dell’economia dei volumi a una società della cura, dell’energia solare e dell’economia solidale – non è più rimandabile, pena la distruzione della nostra casa comune. È dunque indispensabile spezzare il circolo vizioso produzione/consumo/scarti, riconvertendo l’economia e la mentalità in direzione di una convivenza equilibrata tra umani ed ecosistemi. Tutto questo – bisogna dirlo con nettezza – va fatto colpendo innanzitutto i grandi inquinatori e chiedendo sacrifici agli strati più ricchi e “insostenibili” della società.

In altre parole: ciò che oggi va messo in discussione con forza non è la vasta intesa scientifica intorno ai cambiamenti climatici, ma il fatto che la transizione ecosociale alle porte debba essere governata dall’alto, con martellanti inviti al cambio degli stili di vita individuali (in assenza di provvedimenti rivolti ai veri responsabili del disastro) ed evocando il fantasma di nuovi pass “green” che lasceranno le mani libere ai soliti noti, mentre colpevolizzeranno i consumi dei lavoratori, dei ceti medi e popolari. Siamo esattamente alla stessa latitudine della questione pandemica-sindemica: anche qui ciò che va contestato con lucidità è la gestione top-down della crisi, rivendicando modalità democratiche di azione dal basso.

Ecco perché crediamo che il sostegno ai tre referendum a favore della sanità pubblica e contro la guerra, indetti dai comitati “Generazioni Future” e “Ripudia la guerra”, rappresenti oggi una forma di impegno civile capace di mettere in dialogo pezzi della società non di rado divisi durante il periodo sindemico.