Il bilancio provvisorio e purtroppo in continua evoluzione dell’alluvione “senza precedenti” in Emilia Romagna è già di dimensioni apocalittiche nonostante lo stato di allerta puntuale e al massimo livello messo in atto dalla regione. I morti sono saliti a 14, gli sfollati circa 10mila, 43 comuni coinvolti, 23 fiumi esondati con le relative vallate ancora in parte isolate anche a causa di un numero impressionante di frane, 280, diffuse in un’area immensa che va da Bologna a Rimini.
La potenza di questo combinato disposto di “tempesta perfetta” con esondazioni diffuse e capillari su un’intera regione si è registrata anche a Rimini città, risparmiata agli effetti più disastrosi, ma dove posso confermare che il boato dei fulmini è stato tale da essere confuso con il terremoto.
Dopo pochi mesi dagli eventi estremi di Senigallia e di Ischia, ora due alluvioni in Romagna di cui l’ultima dirompente, a distanza di soli 15 giorni dalla precedente, conferma la banale realtà degli effetti devastanti collegati al riscaldamento globale e del costante, inarrestabile consumo di suolo. E non ci sono sotto questo aspetto isole felici e zone meno a rischio: l’Emilia Romagna è insieme a Lombardia e Veneto tra le regioni più toccate dall’allarme idrogeologico e la tradizione di buon governo e di efficienza amministrativa non basta per contrastare eventi di tale portata con cause ben note ma altrettanto scomode.
Certo la Romagna non è la Campania, e Rimini non è Ischia sotto il profilo dell’abusivismo selvaggio e della copertura politica all’illegalità. Ma se “la riminizzazione”, coniata negli anni 80 come sinonimo di “cementificazione selvaggia e/o eccessivo sfruttamento turistico di un luogo con conseguente degrado ambientale e paesaggistico”, negli ultimi anni si è ridimensionata, anche per saturazione, e “addolcita” in nome del green è evidente sulla costa come nell’entroterra che il consumo di suolo non arretra.
Il modo barbaro, vorace e da ultimo autolesionistico in cui abbiamo trattato il territorio è un enorme problema nazionale che non risparmia nessuna regione e che è ampiamente corresponsabile degli effetti devastanti delle cosiddette “bombe d’acqua” che scaricano in poche ore le quantità d’acqua che in passato cadeva in sei mesi.
All’alluvione che viene dal cielo, bisogna aggiungere come viene denunciato instancabilmente non solo dagli ambientalisti, ma da meteorologi e geologi come Mario Tozzi, “l’alluvione di cemento ed asfalto con cui abbiamo ricoperto l’intero territorio nazionale, legittimamente, ma senza la minima attenzione a versanti, corsi d’acqua, coste. A vedere dall’alto le immagini della Romagna e delle Marche si rimane sconcertati: i fiumi costretti in un abito da canali artificiali, rinchiusi in argini impossibili, violentati da ponti troppo bassi, tombati sotto paesi e città, occupati in ogni singola golena, sbarrati da dighe e briglie fino a non vedere il loro sbocco naturale”. Inevitabilmente, tanto più violentemente quanto più forte è stata la forzatura umana, il fiume si riprende il proprio spazio, come già vedemmo diversi anni fa anche a Genova, travolgendo case e capannoni più o meno abusivi in prossimità.
E ci si può almeno augurare, a differenza di quanto accaduto in un recente passato, che almeno in una situazione così drammatica, non ci sia qualche sindaco che finisce per prendersela con “un non umano”, nella fattispecie le nutrie, già capro espiatorio in esondazioni minori in quanto presunte responsabili dell’erosione degli argini. La ripetitività e la progressione di simili eventi figli dell’estremizzazione del clima nelle opposte e complementari polarizzazioni della siccità e delle esondazioni, di cui abbiamo avuto ampia evidenza al nord come al sud, erano state puntualmente previste dai modelli climatici elaborati dagli scienziati di ogni orientamento già negli ultimi decenni del secolo scorso. E per chi non è più da qualche tempo un teenager l’esperienza di ondate di calore al limite della sopportazione con una significativa incidenza della mortalità nella popolazione più anziana, di siccità prolungata per mesi, di incendi diffusi e catastrofici, di tempeste dalla potenza incompatibile con i tradizionali confini geografici e delle stagioni non può certamente essere catalogata come eccezionale.
Purtroppo quello che stiamo vivendo in queste ore e che rimarrà nelle aperture dei tg, nei titoli di prima pagina e sulle home page per pochi giorni ha poco di eccezionale, niente di imprevedibile e se possibile ancora meno di irripetibile. Come ha ribadito Luca Mercalli, che denuncia da sempre anche sul Fatto la diffusa e persistente tendenza a sottovalutare o ignorare tutti i segnali della progressione in atto si è in presenza “di una ignoranza voluta”, un’ignoranza colpevole che ricade in primo luogo sulla politica ma che riguarda anche ognuno di noi che “voltiamo la testa per non vedere”. Infatti se non vale nemmeno la pena di spendere parole sul disprezzo di Salvini nei confronti degli ambientalisti, sull’irrisione dei “gretini” e la demonizzazione di Ultima generazione da parte dei giornali destrorsi, sull’ironia di Sgarbi per l’allarme siccità “mentre finiamo affogati”, vale la pena di riflettere su quanti commenti quasi analoghi o comunque riduttivi sentiamo tra la gente comune.
E purtroppo capita spesso che anche conoscenti e persino amici sembrino interessati al meteo solo per andare al mare o programmare il weekend. Poi ti guardano con manifesta sufficienza, per non dire fastidio se fai “allarmismo” sul clima “a cui bisogna adattarsi” e non ti godi in pace la bella spiaggia arroventata ed il mare caldo come un brodo, dato che hai la fortuna di stare a Rimini. Probabile che si tratti del disinteresse e dell’accidia propria dei “meno giovani” e che, come sostiene Mercalli, la politica e la società non ascoltano “perché il cambiamento climatico va a toccare la responsabilità personale. Richiede impegno. E salvo i ragazzi che si battono per il clima, nessuno vuole fare sacrifici”.