A detta degli esperti sono un argine alla piena che salva le vite. Per qualcuno sono una beffa con cui convive da tutta una vita. Sabina Piccinini è consigliere comunale a San Cesario sul Panaro in provincia di Modena, area allegata oggi come due anni fa. Da giorni guarda esondare l’ultimo affluente del Po con un misto di rabbia e paura. “Passo tutti i giorni davanti a questo monumento alla vergogna, una cassa di espansione da 25 milioni di metri cubi d’acqua che non serve a nulla: è stata costruita nel 1974, quando ero bambina, ed è costata oltre 30 milioni di euro ma in 50 anni non ha mai terminato il collaudo ed è priva di tre paratoie. E ora sta lì, piena di detriti, coi soccorritori con l’acqua alla cintola”. Per paradosso, alla fine degli anni Novanta fu anche inaugurata dal sindaco di Modena, senza essere mai stata collaudata. E non è la sola.
Non è un caso se a dividere Emilia e Romagna sono i corsi d’acqua che affluiscono nel Reno, tra cui Sillaro e il Lanterno, tra i 23 esondati nei giorni scorsi con effetti rovinosi, mandando in tilt la centrale elettrica e di pompaggio dell’acqua, costringendo migliaia di abitanti di Conselice e d’intorni a rimanere bloccati ai piani alti delle case. Ma Emilia e Romagna sono divise anche dal fatto che solo la prima ha delle contromisure chiamate “casse di espansione” lungo gli affluenti del Po, che in Romagna non ci sono proprio, chissà perché.
Insieme alle dighe, le casse sono tra le poche opere idrauliche capaci di ridurre la portata di un fiume tramite lo stoccaggio temporaneo del volume dell’“onda di piena”. Una sorta di parcheggio temporaneo per l’acqua in eccesso che così non tracima a valle spazzando gli argini e invadendo strade e campi. Che funzionino è fuor di dubbio. La loro utilità è stata testata nell’alluvione del 2-3 maggio, quando si sono riempite le casse di esondazione sul Samoggia, nel canale Navile, nel canale dei Mulini e quella nel Senio, nonostante fosse solo parzialmente funzionante. Lo dimostra un’altra “terra di confine” tartassata come il Veneto: nel 2018 fu funestata da 715 millimetri d’acqua in 70 ore, più del doppio dei 300 millimetri caduti nei giorni scorsi nella vicina Emilia-Romagna. Si ruppero argini e acquedotti, si contarono fino a 130 frane, ma danni molto inferiori rispetto a otto anni prima, quando l’alluvione del 2010 devastò il Padovano e il Vicentino e costrinse la regione a mettere in campo opere antialluvionali con 5 bacini di laminazione usando i fondi per l’emergenza. Ecco perché stride ancora di più il fatto che l’Emilia ne sia dotata e la Romagna no.
La questione torna a galla ogni volta, tra mille polemiche, perché in questa regione il rischio alluvionale da molti anni è certezza. “In Emilia sono stati attrezzati i grandi affluenti del Po, mentre la Romagna è quasi completamente scoperta” denuncia e non da oggi Amando Brath, docente di Costruzioni idrauliche dell’Università di Bologna e presidente dell’associazione Idrotecnica Italiana. Il motivo – spiega – è dovuto al fatto che “nel 1973 ci sono state importanti alluvioni nella zona del modenese e l’Agenzia interregionale del Po ha reagito con l’approntare queste opere, che furono anche ben volute e quasi richieste dalla popolazione. Dopo di che questa “tradizione”, partita da Modena, si è un po’ espansa verso Nord, a Parma, Reggio Emilia, però si tratta di casse che andrebbero un pò ripensate oggi”. E poi?
Tra il 2015 e il 2022 la Regione ha destinato 190 milioni di euro per arrivare ad avere in esercizio 23 bacini ma 9 sono ancora da definire, due funzionano solo in parte e solo 12 risultano effettivamente in funzione. Tra quelle ancora in costruzione c’è la diga del torrente Braganza, nel Parmense, opera da 82 milioni di euro arrivata al 30%. Tra i comuni più colpiti dall’alluvione che ha devastato la Romagna ci sono quelli lungo il Senio, nel Ravvenate. Ma delle due casse di espansione previste, in 15 anni ne è stata realizzata una sola a Tebano, per altro non ancora collegata al fiume perché è necessario terminare la seconda, quella che sta a valle ma è in corso di esproprio. Mancano o sono da completare altre, sul Sillaro e sul Lamone che hanno bucato gli argini tra martedì e mercoledì.
L’ex sottosegretario ai Trasporti ed ex capo della struttura Italia Sicura Erasmo D’Angelis ha indicato proprio nelle casse di espansione uno degli interventi necessari per frenare le valanghe d’acqua. “I fondi ci sono ancora, circa otto miliardi. Li ha stanziati il nostro piano, Italia sicura, ormai nove anni fa”. La struttura centrale “è stata dismessa, una parte dei fondi è finita nel Pnrr. Tutto si è fermato”. Anche Marco Casini, il segretario generale dell’Autorità di Bacino Distrettuale dell’Appennino Centrale, indica le casse come ‘barriera’ all’emergenza alluvionale.
Ma il tema dei fondi e della programmazione è tutt’altro che risolto. “Le opere idrauliche sono finanziate o dalla Protezione civile o dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica – dice Irene Priolo, vice presidente della Regione –. Quest’anno avremo dal Mase 13 milioni di euro, contro i 22 ricevuti l’anno scorso. Finanziamenti irrisori, a fronte di una grande complessità anche per quanto riguarda il un lungo iter autorizzativo. Per il torrente Lavino sull’Appennino bolognese siamo già facendo la gara per un primo lotto esecutivo”. Certezze poche, pur nella disgrazia.