In Italia circa il 70% delle piccole e medie imprese sono familiari e meno del 30% supera il terzo passaggio generazionale. Due dati su cui riflettere perché l’obiettivo della sopravvivenza accomuna persone e imprese. Con la differenza che se l’uomo ha un orizzonte temporale limitato, l’azienda può continuare nel tempo e in teoria essere eterna. Il limite alla sopravvivenza nel tempo dell’impresa è solo il buon governo.
La durata dell’impresa è un interesse che travalica quello della famiglia che possiede o controlla l’azienda. Perché l’impresa è un patrimonio collettivo, un deposito di conoscenze e di fatiche, una fonte di lavoro, di sviluppo, di cultura. La si può paragonare a un bosco: ci vuole molto tempo a crescerlo con cura e amore. Ci vuole poco tempo per tagliarlo con le seghe elettriche.
La continuità imprenditoriale è quindi un tema molto più ampio della successione di impresa, che riguarda in particolare l’ambito familiare.
La mia esperienza mi dice che, laddove sangue e business si mescolano, l’azienda riesce a proiettarsi nel futuro, a garantirsi la sopravvivenza, quando il gruppo familiare è riuscito a interiorizzare una corretta e fredda concezione d’impresa e da questa fa derivare le scelte e le decisioni necessarie.
Per tentare di capire questo concetto riflettiamo su quella che può significare una piccola variazione sintattica. C’è una distinzione molto precisa tra impresa familiare e impresa di famiglia. La prima è quella dove proprietà e conduzione (management) coincidono e c’è un sovrapporsi di regole e di problemi di varia natura. Nel secondo caso, il ruolo della famiglia è quella del proprietario intelligente.
Se si comprende la distinzione, di fronte alle scelte diverse dei figli che non vogliono (o non sono in grado) diventare manager dell’azienda, si resta sereni. Non è necessario farne un dramma e subito si arriva alla conclusione di vendere. Non è il caso di vendere, anzi si tratta di insegnare loro a fare bene i proprietari, non i manager.
Se poi si riesce a fare un passaggio generazionale anche a livello gestionale, occorre avere l’accortezza di farlo nascere da un’adeguata e programmata convivenza, dove ogni generazione può portare il suo contributo. La ricerca del leader come fotocopia del precedente è un errore tipico. Ognuno va a cercare se stesso nel figlio. Non è un problema solo di carattere personale, diventa anche un tema aziendale, perché l’impresa ha bisogno di manager preparati, aggiornati e motivati. Se sono della famiglia tanto meglio.
Del resto vale la pena di ricordare che imprenditori si può diventare. Nel momento della creazione d’impresa occorrono doti particolari, ma quando l’impresa si è stabilizzata occorrono buoni professionisti, che abbiano voglia di lavorare tanto. Occorre amore per l’impresa. La verità è che c’è una sola gestione, sempre professionale, sempre manageriale, anche per gli imprenditori. Una gestione corretta secondo i principi e gli obiettivi dell’impresa. L’impresa familiare, gestita in modo professionale, avrà in più quella conoscenza misteriosa che passa da padre in figlio, avrà più onestà e, di conseguenza, avrà vantaggi straordinari.
Se l’impresa va male, la causa è da ricercare in una gestione non professionale. In buona sostanza, sia per la posizione manageriale sia per la posizione di proprietario, sono necessari formazione ed esperienza. La formazione deve essere mirata ai nuovi compiti che l’impresa deve affrontare. È inutile far fare ai figli lo stesso percorso formativo del padre, le gavette estenuanti possono essere controproducenti per l’impresa. I figli responsabili e preparati vanno portati rapidamente al loro ruolo attraverso una via preparata seriamente e programmata. Lungo la quale ciascuno, anche come proprietario, faccia le sue prove, subisca i suoi esami, si assuma precise responsabilità nei confronti di quella comunità di lavoro che è l’impresa e nei confronti della collettività.