Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi. Un incontro tra colossi della letteratura italiana avvenuto a Firenze nella prima metà dell’Ottocento. Cosa sappiamo di quel meeting in riva all’Arno, in una sala di un signorile palazzo cinquecentesco? Quell’appuntamento tra i due più importanti intellettuali italiani del XIX secolo è stato studiato, ma non così a fondo come ci si potrebbe aspettare. Una persona assolutamente “informata sui fatti” è il critico letterario Gino Tellini, che una quarantina di anni fa ha pubblicato un saggio proprio su quel meeting in riva all’Arno, dove il Manzoni – di cui in questi giorni ricorrono i 150 anni dalla morte – era venuto con tutta la famiglia a “risciacquare i panni”, cioè i 71 fogli di grandi dimensioni su cui era stato stampato il suo romanzo storico, I Promessi Sposi. “L’incontro tra Manzoni e Leopardi avvenne a Palazzo Buondelmonti – spiega Tellini a ilfattoquotidiano.it – durante il ricevimento ufficiale organizzato da Giampietro Vieusseux, fondatore dell’omonimo circolo letterario, in onore dell’autore dei Promessi sposi, la sera di lunedì 3 settembre 1827, dalle 19 alle 21. I testimoni riferirono di una festa affollata e distinta, con Manzoni che, da tutti onorato, nonostante la sua timidezza in pubblico si mostra disinvolto se non espansivo, malgrado la balbuzie che ne impreziosiva l’arguzia comunicativa. Furono presenti, tra gli altri, Gaetano Cioni, Terenzio Mamiani, Mario Pieri, Giovanni Battista Niccolini, Pietro Giordani“.
Professor Tellini, quell’incontro ebbe un peso culturale?
A parte i dettagli cronachistici della serata, curiosi e anche divertenti, riferiti da Mario Pieri nelle sue memorie e poi ripetuti fino a oggi da molti studiosi, importano soprattutto due cose: la prima è il merito che va riconosciuto a Vieusseux per essere riuscito a fare incontrare di persona i due nostri massimi autori moderni; la seconda cosa è il valore simbolico che a quell’incontro va assegnato.
Perché valore simbolico e non sostanziale?
Manzoni e Leopardi in quel momento erano due entità contrarie, che poco avevano in comune, ma quel poco è fondamentale. Erano autori antitetici eppure compagni di strada. Manzoni aveva pubblicato nel giugno 1827 a Milano, presso Ferrario, il suo romanzo e Leopardi, sempre a Milano, sempre a giugno, le sue Operette morali, presso Stella. Un romanzo nella lingua dell’uso e una raccolta di dialoghi filosofico-fantastici nella più selezionata lingua letteraria. Il romantico Manzoni per arrivare al suo capolavoro si è “sliricato” (cioè ha abbandonato la centralità dell’io, “il più lurido di tutti i pronomi”, come diceva Gadda). Invece il classicista Leopardi, anche se scrive le Operette, resta indubitabilmente un sommo lirico. Manzoni contesta la mitologia e proclama il vero come bello; Leopardi difende la mitologia come fonte di poesia, su posizioni duramente antiromantiche, e identifica il bello con il “finto”, con l’illusione, con l’immaginazione: E sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo (L’infinito, vv. 5-7).
Sembra quasi una sfida da Champions League. Possiamo stabilire un vincitore?
Una volta affermato che i due autori erano antitetici, merita vedere i loro punti di contatto: erano compagni nel lavoro di liberare la nostra letteratura dalla “spazzatura” (come ha scritto Gadda in Solaria nel 1927) della vacua magniloquenza e dal “cancro della retorica” (come ha scritto Ascoli nel 1873) e del servilismo. Perciò si sono reciprocamente stimati. Furono concordi nel non aderire all’invito loro rivolto da Vieusseux di collaborare all’Antologia (Leopardi rifiuta nel 1826, Manzoni nel 1832), ovvero si ritrovarono d’accordo nel prendere le distanze dalla cultura della modernità rappresentata da Firenze: per Manzoni, Firenze è troppo incline al compromesso con la tradizione classicistica e quindi troppo formalistica; per Leopardi, Firenze è troppo legata a una modernità oltranzista che lui non accetta, una modernità utilitaristica, attenta a una letteratura di strumentale didascalismo.
Insomma, pare che almeno su questo argomento i due fossero in perfetta sintonia.
Per entrambi la letteratura non doveva essere espressione del culto della forma, cioè non un gioco estetizzante né uno di parole, non un ornamento intellettualistico, bensì una forza autenticamente conoscitiva, un modo di intendere la vita e di lottare.