Fuori dal tempo ma dentro alla Storia. Aki Kaurismaki è così, prendere o lasciare. E noi lo prendiamo. Perché è impossibile non amare un cinema sempre uguale a se stesso eppure sempre vibrante di poesia e capace di cogliere l’essenza dell’umana sorte. Fidelizzato al Festival di Cannes, il cui pubblico e critica lo adorano e accolgono – come in questo caso – con un calore del tutto speciale, il cineasta finlandese torna a concorrere sulla Croisette con Kuolleet lehdet (Le foglie gialle) a sei anni da L’altro volto della speranza.
Melò sentimentale a sfondo sociale tra due personaggi radicalmente “kaurismakiani”, è una fiaba romantica tra due giovani operai ai margini di tutto: lui alcolizzato e depresso, e lei chiusa in una inconsolabile solitudine, tra un lavoro precario e l’altro. Sullo sfondo le notizie radiofoniche della guerra in Ucraina, in primo piano quella consueta umanità teneramente dolente incapace di esprimere emozioni, e dunque di comunicare. Almeno in apparenza. Si ride delle battute caustiche che animano il testo, ci si commuove davanti queste vite così disperate, e non si smette di apprezzare una poetica cinematografica coerente a una cifra estetica ed etica che il 66enne autore di Helsinki ha forgiato a modello. Il suo teatro dell’assurdo dagli inconfondibili vivacissimi colori e dalle inquadrature semi-fisse, così denso di surrealismo caustico che si fonde alla dolcezza perché la vita è fatta esattamente così, è ancora riuscito a risollevare gli animi della platea cannense, e di certo non mancherà di scaldare i cuori anche del pubblico italiano quando le sale grazie a Lucky Red lo programmeranno prossimamente.
Il film di Kaurismaki giunge a metà di un concorso indubbiamente solido. Almeno grazie ad alcuni titoli finora passati che già si possono considerare “i migliori” dei cineasti che li firmano. Il più esemplare è l’opera magistrale del turco Nuri Bilge Ceylan (Kuru Otlar Ustune) che significa “A proposito dell’erba secca” (About Dry Grasses): il già vincitore della Palma d’oro nel 2014, e di svariati riconoscimenti sempre a Cannes, è riuscito a confezionare forse il suo lavoro più completo e complesso, che indubbiamente almeno tra le visioni finora passate, meriterebbe il bis del massimo riconoscimento. Della durata di oltre tre ore, mette in scena un giovane professore di scuola media di un villaggio curdo in Anatolia. Uomo irrisolto, nichilista eppure irresistibilmente affascinate, che si trova alle prese con problemi con una studentessa, con l’istituzione scolastica, con il coinquilino, per innamorarsi, infine di una brillante collega disabilitata di una gamba, il suo opposto perfetto in quanto a temperamento. Sullo sfondo la società turca ricca di contraddizioni ma soprattutto un’umanità che intimamente non può cambiare, perché – come si diceva per Kaurismaki – quella è l’essenza della vita. Il miglior cinema che possa esistere.