I suoni. Sono stati quelli la prima cosa che è cambiata attorno e mi ha allarmato. Il rumore del vento, un ruggito violento e selvaggio, e la pioggia battente, che cadeva da un cielo muto, senza un tuono, senza un lampo. Così ho passato la prima notte, a vegliare alla finestra la strada, stando attento a non svegliare mio figlio Leo per non spaventarlo.

Poi si è aggiunto un suono, quello degli elicotteri, con le pale che tagliano l’aria il cui rumore riecheggia tra i palazzi.

Solo a quel punto sono iniziate le telefonate. Una voce metallica che ogni due o tre ore, ci dice quali paesi e quali quartieri vanno evacuati. Una voce fredda, robotica, che mette i brividi con i suoi moniti perentori. Sento l’elenco dei luoghi da evacuare e penso: “Chi conosco che abita in quella zona? Come posso aiutarlo?”. Telefono a mia mamma, a mia sorella, agli amici, per sapere se stanno bene. Intanto sposto le cose di valore più in alto possibile. Il computer, lo stereo, i libri a cui tengo di più. Controllo su Google Maps la mappa di tutti i canali, l’acqua dopo i fiumi sta uscendo da ogni minimo rivale. Ce ne sono tantissimi a cui non avevo mai fatto caso, poco più che fossi, e ora stanno diventando fiumi in piena. Penso alla pendenza delle strade, cerco di capire se ha senso spostare l’auto per tentare di metterla in salvo, cerco gli stivali di gomma nel ripostiglio, controllo se ho da bere e da mangiare in casa e calcolo quanto può durarmi se rimaniamo bloccati. Metto in carica il cellulare, perché la corrente può saltare da un momento all’altro. Forse sto esagerando, mi dico.

Ma poi arriva l’acqua. Marrone, fangosa, viscida. Che si insinua sotto le porte, che trasforma campi in laghi, strade in fiumi. Non si può fare nulla contro l’impeto dell’acqua. Si è disarmati. Non ci sono sacchi di sabbia o paratie che reggono.

L’acqua che rompe l’argine continua a sgorgare, come una emorragia. Invade Faenza, Cesena, Forlì, Solarolo, Reda, continua ad avanzare, Savio, Russi, Barbiano, Bagnacavallo, Conselice continua ad avanzare, arriva a Lugo.

Mi sembra di rivivere pagine che ho scritto.

Avevo raccontato della città romagnola di Afunde, un paese di fantasia che affonda nelle acque: “L’acqua del fiume, anziché correre verso il mare, risaliva la corrente, come spinta da un’energia invisibile. Era un’acqua scura, con minuscoli detriti che galleggiavano. Camminando contro corrente si addentrava nella valle. Ogni passo opponeva una resistenza sempre maggiore, l’acqua e il fango si avvinghiavano alle gambe. Gli argini ormai non potevano più niente contro quella furia. L’acqua torbida sommerse i campi e le case, fino a farle scomparire. Così la Romagna pianeggiante veniva lentamente inghiottita dal mare. La natura si stava vendicando degli uomini che l’avevano violentata, riprendendosi quello che le spettava. Quella era Afunde”. Così avevo scritto in Il labirinto delle nebbie (Mondadori), e purtroppo non mi ero sbagliato. Un pronostico fin troppo prevedibile purtroppo.

Casa mia però è salva. Per ora. Mi sento in colpa, nel vedere tanti amici rimasti senza più un tetto.

Ora sul divano dorme Massimiliano, un amico sfollato da San Bartolo, intanto sento Claudio che è andato a prendere i suoi genitori anziani a Mordano e li ha portati nel suo appartamento all’ottavo piano di un condominio. Su Whatsapp mi arrivano le foto di altri conoscenti sfollati, chi passa la notte nella palestra dell’istituto tecnico, chi nella sala del cinema City. Lucia dorme nel museo Classis sdraiata in un lettino sdraio, simi a quelli che danno in spiaggia, ma anziché tra gli ombrelloni qui è tra le antiche lapidi di quando Ravenna era capitale dell’Impero Romano. Mi invia una foto del suo cane che scodinzola in mezzo ai reperti bizantini.

Gli amici di Cesenatico mi mandano anche foto buffe dei soccorsi in casa fatti con i pedalò, e penso che forse a salvarci sarà proprio il nostro senso dell’umorismo, che ci dà la forza di non arrenderci. Intanto che l’onda si sposta e devasta Lugo c’è già chi comincia a spalare il fango.

Tra questi il mio amico Stefano di Villanova che aiutava i soccorritori in mezzo al fango quando è arrivato il reporter per fare degli scatti. Il giorno dopo mi ha inviato la pagina di giornale con la sua foto, il titolo però era meno epico del previsto, Stefano gli ha suggerito di titolare “Gli angeli del fango”, invece c’era scritto: “Salviamo il salvabile”. E per giunta non era la foto dove trasportava il pianoforte, come avrebbe sperato, ma una in cui era di spalle, piegato in avanti, con fondoschiena in primo piano. Mi scrive “Sono venuto bene vero?” e una faccina che ride. Penso che forse è solo quando si riesce a sorridere delle proprie disgrazie che si riesce a sopravvivergli. Stefano è riuscito a restituirmi il buon umore. Gli sto rispondendo quando mi suona di nuovo il telefono. È la voce metallica, dice che l’acqua sta crescendo ancora, ci sono nuove aree da evacuare.

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