“La civiltà di una nazione si dimostra anche dal modo in cui sa proteggere il suo territorio”, parole di Theodore Roosevelt, uno dei quattro presidenti americani scolpiti sul famoso Monte Rushmore.
Se questo è vero, il disastro verificatosi in Emilia Romagna nei giorni scorsi ci mette di fronte a pesanti interrogativi: 23 fiumi esondati, 15.000 sfollati, senza dimenticare le 14 vittime sin qui dolorosamente contate. Non basta evocare i cambiamenti climatici, che certamente amplificano i danni in un territorio fragile; chi vive in quei luoghi non dimentica l’alluvione del Polesine del novembre 1951 che interessò Ferrara e il vicino Veneto, con un centinaio di morti e oltre 180.000 sfollati, quando ancora non si parlava di emergenza climatica e di surriscaldamento globale.
Da allora – scusate la battuta – ne è passata di acqua sotto i ponti. Il nostro Paese, da nord a sud, ha vissuto ben 500 alluvioni negli ultimi 12 anni. L’Emilia Romagna non è stata certo a guardare, sono state fatte molte opere idrauliche e non solo, tanto che la regione si classifica tra le prime in Italia per cementificazione e consumo di suolo; nel 2020/2021 si contano 658 ettari cementificati pari al 10,4% del dato nazionale (fonte Ispra), terza regione dopo Lombardia e Veneto. In particolare, nelle aree a pericolosità idraulica vanta un vero e proprio record, risultando la prima regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali.
Il governatore emiliano Bonaccini ha subito detto: “ricostruiremo tutto”. Siamo sicuri che sia la strada giusta? Su un muro di Hong Kong, durante la pandemia di Covid, è apparsa la scritta “non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema”. La sempre maggiore impermeabilizzazione del suolo favorisce questi disastri, tra un suolo libero e uno cementificato la quantità d’acqua che scorre violentemente in superficie aumenta di oltre cinque volte. Anche costruendo nuovi invasi ed argini, se non si pensa ad un utilizzo diverso del territorio il problema resterà.
Con questa ondata di piogge eccezionali le frane hanno colpito 15 comuni in provincia di Bologna, 14 nel modenese, 6 sull’Appennino reggiano, 15 nel territorio di Forlì-Cesena, 5 nel riminese e 3 nel ravennate. Un totale di 58 comuni per oltre 280 fenomeni franosi, 120 dei quali particolarmente importanti. Il terreno prevalentemente argilloso e comunque poco consolidato di gran parte dei territori interessati si presta agli smottamenti in presenza di forti precipitazioni, ma alcune mancanze di attenzione non hanno certamente aiutato: il taglio a raso e non selettivo di diverse aree boscate, il proliferare di strade agro-silvo-pastorali che tagliano i versanti compromettendone la stabilità, la mancanza di manutenzione di corpi idrici o la loro regimentazione forzata. A questo si aggiungano i progetti per nuove opere, che non vanno certo nella direzione della messa in sicurezza del territorio; uno su tutti, il famigerato gasdotto Brindisi-Minerbio che dovrebbe attraversare alcuni dei fiumi recentemente esondati e diverse zone di faglia che prima dei recenti fenomeni venivano considerate “quiescenti”, prevedendo inoltre l’abbattimento di numerosi alberi quando ben si sa che le radici degli alberi consolidano il terreno, impedendo frane ed erosione, mentre le chiome trattengono la pioggia e ne riducono la forza, aumentando il tempo che le acque impiegano per giungere al corso d’acqua recettore.
Ora, alla ricerca dei colpevoli, si dà la colpa alle nutrie (!) e alla vegetazione, il ministro dell’Ambiente ha perfino puntato il dito contro quelli che “dicono sempre no” quando in Italia ha sempre vinto il partito del sì, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: cementificazione e consumo di suolo con scarsa manutenzione, corruzione, inquinamento. Abbiamo una classe politica e imprenditoriale che non è in grado di programmare il futuro, e governa il presente con la logica dell’emergenza più che quella della prevenzione; per dirla con le parole di Ferdinando Boero, una classe politica ecologicamente ignorante è l’espressione di elettori ecologicamente ignoranti: il problema è culturale.
Con il Pnrr abbiamo centinaia di miliardi per la transizione ecologica, ma manca una strategia per realizzarla; come disse un altro Roosevelt, Franklin Delano, “quanti sono gli esperti, tante sono le opinioni”. Avremo una transizione ecologica senza ecologia. Ma le colpe sono degli ambientalisti, ça va sans dire.