La catastrofe idrogeologica di maggio in Emilia Romagna è, sotto molti aspetti, particolare. Dopo una prolungata siccità, un primo nubifragio aveva prodotto gravi danni nell’appennino tosco emiliano e nella pianura di valle. Un evento “unprecedented” secondo la definizione delle istituzioni regionali, senza precedenti. Meno di quindici giorni dopo, altre piogge molto consistenti hanno prodotto un altro, peggiore disastro, che definire questa volta “unprecedented” pare azzardato. Se esercito la memoria a breve termine, un assetto meteo simile — due nubifragi consecutivi a breve distanza tra loro — fu all’origine dell’alluvione che colpì il ponente genovese nel 2010; nel suo piccolo, un grande disastro. Chi segue il blog sa che da sempre sconsiglio agli italiani, ma anche ai californiani e agli africani, l’uso dell’aggettivo “unprecedented”. Non porta bene.
La catastrofe emiliano romagnola è comunque di estensione e proporzioni enormi, paragonabile a quella tedesca e belga del luglio 2021, il cui danno venne valutato in più di 10 miliardi di euro, due e mezzo relativi a beni assicurati. Anche come vastità, paragonabile a quello dell’Emilia Romagna. Dove, alla conta finale, la cifra dei danni potrebbe non essere molto inferiore a quella tedesca.
Mi confronto con le alluvioni da circa 60 anni. Prima attonito, adolescente quasi incredulo di fronte all’impatto della frana nel lago del Vajont, quando l’onda di sormonto causò nella valle del Piave più di duemila morti mentre quel capolavoro d’ingegneria della diga ad arco rimase intatto. Poi, fui spettatore delle catastrofi fiorentina (1966) e piemontese (1968). Infine, spalai i detriti come un bravo “angelo del fango” dopo l’alluvione genovese del 1970. Molta mota e poco cielo, comunque nero.
Dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, sono diventato poco a poco uno studioso della materia. Un libro, scritto in italiano, che pubblicai nel 2017 offre un affresco sulle alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio sotto vari profili: scientifico, tecnico, sociale, politico, economico. Per tutto questo tempo, l’ultracentenaria definizione di “sfasciume pendulo sul mare” è stata purtroppo confermata dalla impressionante sequenza degli eventi dei secoli XX e XXI. Né la tragedia di questi giorni ha potuto confutarla.
Dall’alluvione romana del 1870, la peggiore del secondo millennio, in poi, il filo rosso dell’emergenza ha sgranato un rosario infinito di disastri arrivando sempre alle stesse conclusioni. Abusando della credulità popolare, è stata ostinatamente proposta la medicina che non c’è: la soluzione finale in grado di “mettere in sicurezza” una volta per tutte il povero “sfasciume pendulo”. Ero così arrivato alla conclusione che, magari, si potrebbe svoltare pagina. E, facendo tesoro dell’esperienza di una intera generazione di ingegneri e geologi, avevo suggerito — nell’ultimo capitolo di quel noiosissimo volume — un decalogo per mitigare il rischio alluvionale. Senza alcun riscontro. Poiché ho ripetuto queste idee sul blog fino alla noia, non voglio annoiare più.
In questi fortunati sessant’anni – non tutti coloro che hanno condiviso con me questo percorso sono ancora tra noi – ho visto (e rivisto) cose che voi umani non potete neanche immaginare, come sussurra il replicante Roy in Blade Runner. E, in questi giorni, mi è stato rifrullato lo stesso film con alcune varianti di occasione, dove le congetture più balzane sono state avanzate senza apparenti confutazioni. Ne cito qui soltanto tre.
1. La risorsa salvifica: con i soldi del Pnrr mettiamo in sicurezza il paese. I soldi sono da sempre il motore primo della difesa del suolo. E, visto che i soldi del Pnrr fanno gola a tutti, una emergenza tira l’altra. Ma nulla è meno idoneo del Pnrr, provvedimento di corto respiro, a costruire ciò che serve, una strategia di medio e lungo periodo, sostenibile e consapevole. E, non a caso, le azioni di difesa del suolo già inserite nel Pnrr sono in grandissima parte di rispristino dei danni, come scrissi su questo blog l’anno scorso.
2. Il cambiamento climatico: possiamo evitare quanto accaduto con una rapida transizione ecologica. Confondere (idro-)meteorologia e climatologia è come confondere i cento metri con la maratona. E serve solo a creare l’alibi dell’imponderabilità e dell’imprevedibilità, giustificando l’inerzia. Anche se domani le emissioni si azzerassero, il pianeta dovrà affrontare una drammatica sfida climatica per i prossimi 50 anni, parlando da inguaribile ottimista. E lo sappiamo da almeno 30 anni.
3. La messa in sicurezza: i territori, urbanizzati e agricoli, possono essere redenti con le opere idrauliche. Il rischio alluvionale dipende da tre fattori: la pericolosità, più o meno naturale; l’esposizione dei beni e dei patrimoni al rischio; la vulnerabilità del territorio. Negli ultimi 200 anni abbiamo ridotto enormemente la pericolosità, in genere con opere di ingegneria civile, progettate secondo le diverse mode dell’epoca. Ma, con tutta evidenza, il rischio è aumentato.
Se la pericolosità è diminuita e il rischio è maggiore di quello di una volta, esposizione e vulnerabilità sono evidentemente cresciute enormemente. L’esperienza insegna che bisogna agire contemporaneamente sui tre fattori, tutti altrettanto importanti. Ciononostante, le politiche sulla difesa del suolo hanno ignorato finora questa evidenza, privilegiando le opere di ingegneria finalizzate a diminuire la pericolosità. E, per capire queste politiche bisogna seguire il profumo dei soldi: oltre che la soluzione più facile, questa scelta mette in moto risorse ben visibili e negoziabili. Per non citare le pieghe corruttive, meglio praticabili con la riduzione della pericolosità rispetto alle altre opzioni. Se si vuole cambiare rotta, bisogna agire su esposizione e vulnerabilità, senza abbandonare dove serve davvero una buona progettazione idraulica, sempre più rara.
Ho sentito raccontare che Genova è salva grazie allo scolmatore del Bisagno, anche se l’opera è “ferma al palo”. Che il Seveso è stato messo in sicurezza, e mi taccio. Che il lago di Bilancino e le casse di espansione a monte di Firenze mettono la città al sicuro, mentre l’intervento più incisivo – a mio parere – è stato l’abbassamento delle platee di Ponte Vecchio e del Ponte Santa Trinita, che ha innalzato la capacità di smaltire la portata massima nel tratto urbano dell’Arno da 2500 a più di 3400 metri cubi al secondo; un progetto realizzato negli anni ’80 del secolo scorso. Mi fermo qui.
Chiudo dove avevo iniziato. La Germania ha pianto quasi 200 vittime a causa dell’alluvione del 2021, 196 per essere precisi come i tedeschi. E il Belgio 46. In seguito alla catastrofe in Emilia e Romagna che ha colpito un vasto territorio, pari a un decimo del bacino del Po, si piangono finora meno di 20 vittime e spero ardentemente che l’elenco si fermi qui. Forse per l’ultracentenaria abitudine della gente italiana a confrontarsi con il rischio alluvionale, forse per una Protezione Civile efficiente e preparata, forse per un sistema di allerta comunque più attento ed efficace del passato, la strage non c’è stata. Non va dimenticato lo sforzo di salvaguardare ogni vita umana, ma bisogna ripartire da qui per sopravvivere e, magari, prosperare sullo “sfasciume pendulo”.