Arrivo subito al punto, riportando questa recentissima dichiarazione di Michele Serra: “L’avanzata delle destre? Noi intellettuali di sinistra abbiamo fatto il nostro lavoro, non mi sento in colpa”. Quindi seguono affermazioni sulla inadeguatezza culturale della destra e sul fatto che essa, a livello di egemonia ideologica, sembra essere diventata dominante perché si basa sul vuoto ideale che permea la nostra società. La sinistra è la parte politica che vuole cambiare, il suo compito è più complicato e faticoso. Questo il Serra pensiero.

Raramente mi è capitato di leggere una sequela di affermazioni così intellettualmente superbe e scollegate da un principio minimo di realtà.

Gli intellettuali di sinistra avrebbero fatto il loro lavoro? Ma dove, quando e come caro Serra? Ancora oggi si dividono perlopiù in due categorie: da una parte – i più noti al grande pubblico – troviamo i beneficati dal circolo magico dei soliti, fenomeno che Fulvio Abbate ha efficacemente riassunto col termine “amichettismo”. Dall’altra i meno noti, spesso rinchiusi nella torre eburnea dell’Accademia, afflitti da una rancorosa rabbia per il mondo che non ne riconosce la grandezza e, soprattutto, legati a ideali e progetti di una sinistra che non era più al passo coi tempi neppure nella seconda metà del Novecento, figuriamoci oggi. Soprattutto i primi si spalleggiano vicendevolmente, si invitano alle trasmissioni mediatiche, ai festival letterari, si recensiscono con lodi sperticate i rispettivi libri. Ovviamente soltanto i loro.

Sono sempre gli stessi e il loro elitarismo è sovente avvenuto anche a spese di altri intellettuali di sinistra emarginati per questo o quell’altro motivo. Rivestiti di una boria spesso immotivata (ammesso che possa mai esserlo), sono sempre pronti a bollare come reazionari o fascisti tutti coloro che non si uniformano integralmente al Verbo. Chiusi a ogni tipo di dialogo con chi non la pensa come loro, si guardano bene dal partecipare a festival e occasioni di dialogo culturale che ritengono estranei al circuito preferenziale del proprio orticello. Spesso declinano con l’affermazione – e già siamo a un buon grado di sincerità – secondo cui hanno paura di “legittimare” il luogo empio che ha avuto l’ardire di invitarli o gli interlocutori “indegni” con cui si sarebbero trovati a dialogare.

Non voglio annoiare nessuno con i dettagli, ma da intellettuale di sinistra a mia volta (espressione ormai diventata odiosa ai più, chissà perché…) – non appartenente al circolo elitario di cui sopra – faccio le affermazioni suddette con una certa cognizione di causa.

Tuttavia non mi interessa fare una polemica da quattro soldi, bensì evidenziare gli atteggiamenti colpevoli che oggi non solo hanno condotto la politica di destra a essere largamente maggioritaria anche a livello culturale, ma ci squadernano in faccia uno scollamento spaventoso fra gli intellettuali di sinistra e i reali bisogni e interessi delle classi popolari (Gramsci parlava di “connessione sentimentale”).

Ha un bel da fare l’intellettualità di sinistra a insorgere contro la destra che vuole occupare anche i posti della cultura o imporre intellettuali afferenti alla sua parte che, fino ad oggi, sono stati perlopiù ignorati dal mainstream. Da quale pulpito, ci si potrebbe chiedere, quello di chi ha rappresentato una setta culturale chiusa al dialogo anche al proprio interno? O quella di chi contesta un ministro della Repubblica regolarmente invitata al Salone del libro, impedendole di parlare al grido di “fascista, fascista!”?!

Il fumettista Zerocalcare lo ha detto benissimo, parlando di intellettuali di sinistra che “si sono fatti i c…i loro per decenni”. Peccato che la sindrome da cerchiobottismo lo abbia spinto a colpire anche il filosofo de Benoist, ospite anch’egli al Salone del Libro di Torino, accusandolo scioccamente e ingiustamente (beata ignoranza!) di ispirare i circoli neonazisti europei. Stiamo parlando del de Benoist che nel 1986 scriveva in favore del “dialogo con l’Altro”, ispirandosi a un ideale della differenza che “rifiuta per principio la considerazione inegualitaria delle culture, opponendosi su questo punto tanto al razzismo che all’etnocentrismo” o alla gerarchizzazione della cultura.

Ecco, credo sarebbe ora che l’intellettualità di sinistra facesse propria questa lezione del filosofo della “Nuova destra”, dismettendo i panni troppo spesso ipocriti e sterili del politicamente corretto, e adottando finalmente una politica di dialogo con una cultura “altra” che non si può ignorare bollandola sistematicamente e riduttivamente come fascista.
Il rischio, altrimenti, è che questa boria furiosa di considerarsi depositaria di una verità unica – con annessa sindrome da riserva indiana – distrugga anche quel pochissimo di vivo che è rimasto della cultura di sinistra. E Dio solo sa quanto servirebbe in un’epoca in cui sfruttamento e disuguaglianze stanno tornando prepotentemente sulla scena mondiale.

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