di Chiara Piana
In occasione del 31esimo anniversario della strage di Capaci – nella quale morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta – mi chiedo come questa ricorrenza verrà affrontata nelle scuole. Sarebbe normale pensare che in tutte le classi si tenessero lezioni sulla figura del giudice, sulle altre vittime della mafia e, ovviamente, sulla criminalità organizzata. Non ne sarei, però, così sicura; per evitare di generalizzare, mi riferirò alla mia esperienza scolastica, ma è possibile che le stesse osservazioni valgano anche per tante altre realtà.
Mi ha sbigottita il fatto che la mia classe sia giunta all’esame di maturità senza avere studiato la storia italiana della seconda metà del Novecento, né aver mai udito le parole “mafia” e “terrorismo”. Al netto dell’interesse personale che ho sviluppato per tali materie, ritengo che ignorare questi temi e gli avvenimenti storici e politici a essi connessi rappresenti un vulnus inaccettabile nella formazione di un cittadino, perché significa privarlo degli strumenti per capire il nostro Paese e il nostro presente. In cinque anni di liceo, il 23 maggio è sempre stato giorno di interrogazioni, verifiche, programmi da portare avanti: non una parola sull’attentato di Capaci, né sul ritrovamento di Aldo Moro e l’assassinio di Peppino Impastato il 9 dello stesso mese.
Eppure, raccontare la loro storia non sarebbe un contentino da dare ai capricciosi che, come me, vogliono approfondirne la conoscenza, ma fare educazione civica. La memoria di certi avvenimenti e di coloro che ne furono protagonisti non è, infatti, una scelta (né, tantomeno, un tabù), ma un preciso dovere di ogni insegnante che voglia formare cittadini liberi, consapevoli ed eternamente grati verso chi ha sacrificato la propria vita per affermare e difendere quei princìpi universali e fondamentali della Costituzione di cui noi godiamo grazie a chi non vi è mai venuto meno. Sapere perché Moro sia stato ucciso, che cosa fossero le Brigate rosse, perché due magistrati siano saltati per aria – inserendosi in una scia di sangue quantomeno risalente a Portella della Ginestra –, perché oggi esista il 41-bis e come sia nato il fenomeno del pentitismo non sono quisquilie da appassionati, ma elementi imprescindibili del patrimonio culturale di ciascuno.
Se non fosse per i libri e la sensibilità dei miei genitori su questi temi, per alcuni programmi televisivi e inchieste giornalistiche e, di base, per mia curiosità, non saprei nulla di tutto ciò. Non ritengo accettabile affidare l’acquisizione di queste conoscenze alla buona volontà dei singoli o all’educazione familiare; spetta all’istituzione scolastica favorirne un’adeguata conoscenza, poiché solo la scuola può agire a livello universale e raggiungere tutti i cittadini di oggi e di domani. E non è vero che “non c’è la sufficiente distanza storica per parlarne” (citazione della mia professoressa di storia) perché, se davvero così fosse, non si spiegherebbero i libri e i documentari su questi temi, salvo pensare che i loro autori siano dei ciarlatani. Pertanto, se anche la scuola viene meno a questo suo compito, quali speranze abbiamo che la memoria di persone uniche come Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Moro, Impastato, don Puglisi (e tanti altri) sia trasmessa alla mia generazione e a quelle future?
Non trattare di questi argomenti significa non avere contezza di quanto le azioni di tutti loro tocchino la nostra condizione di cittadini di uno Stato di diritto e, quindi, la nostra vita.