Più dell’oscurità misterica, insita nel modo oracolare con cui si esprime Luciano Spalletti, è la sua espressione da cane bastonato che lascia intendere il futuro liquidatorio che incombe sulla più bella realizzazione del calcio italiano, dal tempo in cui il semi-sconosciuto Arrigo Sacchi liquidava con il suo Milan stellare il paradigma sparagnino pallonaro (alla Brera) del mordi e fuggi, barricate e contropiede; quando il calcio mondiale evolveva già da tempo verso criteri di gioco coraggiosi e spregiudicati.
Può darsi che il presidente Aurelio De Laurentiis e l’allenatore attendano la fine del campionato per non rovinare la festa dello scudetto, prima di ufficializzare le ragioni che mandano in frantumi il formidabile giocattolo chiamato Napoli Calcio.
Nel frattempo possiamo provare a capire le dinamiche “secretate” riferendoci alle biografie dei due duellanti in uno scontro privo di ragioni apparenti. Certamente pesa il carattere orgoglioso e fumantino di Spalletti, ma la prima indiziata del misfatto resta la protervia presidenziale, declinata in pratiche gestionali improntate alla capricciosità: da quando spinse alla fuga un argentino albagioso quale Gonzalo Higuain, deridendone il presunto sovrappeso mentre il bomber stava portando in alto il club a suon di gol; quando rischiò di stroncare la carriera di uno dei massimi allenatori mondiali – Carlo Ancelotti – per il solo gusto di deriderlo.
Comportamenti apparentemente incomprensibili, che possono essere spiegati solo come il volgare tentativo di liberarsi di una spiacevole concorrenza nella propria appropriazione esclusiva dei meriti nei successi sportivi. Cui fa da cornice una mentalità inestirpabile in siffatti personaggi danarosi: l’idea che chi paga può arrogarsi il diritto di spadroneggiare. Dunque, l’abito mentale del cosiddetto “padrone delle ferriere”; l’idea arcaica che ricorre costantemente in chi presume che con i soldi non ci si limita a pagare una prestazione, ci si compra l’anima del prestatore d’opera. Come nell’immortale battuta del vero capofila di questa genia prevaricatrice – Silvio Berlusconi – che quando il decano dei giornalisti italiani Indro Montanelli non volle seguirlo nell’avventura di Forza Italia, venne liquidato con protervia: “sputa nel piatto dove ha mangiato”. A riprova della radicata convinzione che un rapporto di lavoro presuppone l’immediata assunzione della condizione servile da parte del dipendente. Alla faccia delle chiacchiere consulenziali sul primo vantaggio competitivo di un’impresa rappresentato dalle sue risorse umane (ignobile ipocrisia, accompagnata dalla bubbola up-to-date che il primo obiettivo di un bravo manager – in veste di “chief happiness officer” – è quello di promuovere la felicità dei propri collaboratori. La cosiddetta “healing organization”).
Ritornando al tema calcistico, continuano i danni prodotti dalla mentalità strumental-dittatoriale dei boss. Per cui il meschino Andrea Agnelli curava di allontanare il troppo popolare Alex Del Piero; un campione non solo di calcio giocato ma anche di cultura calcistica, che avrebbe potuto impedire alla Juventus di trasformarsi in un cimitero di potenziali talenti inespressi. Come avviene all’estero, in cui i grandi giocatori a fine carriera vengono preposti a funzioni strategico-dirigenziali, in cui mettere al servizio del club tutto il loro sapere pratico: da Johan Cruijff del Barcellona, a Franz Beckenbauer e Karl-Heinz Rummenigge nel Bayer. Accettando che il loro carisma continui a produrre effetti nel tempo. Quanto il narcisista Berlusconi si guardò bene dal fare con Paolo Maldini, probabilmente uno dei massimi difensori del calcio mondiale di tutti i tempi e certamente il più grande italiano, costretto all’esilio per dieci anni. E solo ora può dimostrare al servizio dei colori sociali quello che è: dopo l’atleta, un formidabile dirigente.
Ma questi presidenti-padroni non si curano delle dissipazioni che producono. Per cui De Laurentiis è ben lieto di liberarsi dell’ingombrante Spalletti. Anche se a prezzo della dilapidazione del capitale scudetto, già messo a repentaglio dall’irresponsabile sciopero del cosiddetto tifo organizzato, interessato a imporre con il ricatto a società e pubblico il proprio dominio sullo stadio. Quanto aveva ragione l’aprile scorso Fabrizio d’Esposito a titolare il proprio articolo sull’imminente vittoria in campionato del Napoli “Lo scudetto diviso di lazzari ed élite”.